Se c’è una parola che quest’anno sicuramente ricorderemo, oltre a Covid, pandemia e contagio, è smart working. Una modalità di lavoro che non è certo nata nel 2020, ma che in questi mesi ha conosciuto una diffusione senza precedenti ed è arrivata sulla bocca di tutti, anche di chi non l’ha mai fatto perché magari è in pensione o purtroppo (o per scelta) non lavora.
Cosa resterà del lavoro agile a partire dal 15 ottobre? Ma cosa ne sarà del lavoro agile – altro sinonimo meno noto rispetto alla versione anglicizzante – dopo che terminerà lo stato di emergenza deciso dal Governo, ossia dopo il 15 ottobre? E che ne è già adesso che molti dipendenti, dopo la pausa estiva, sono tornati, a fasi alterne, in ufficio? Sicuramente occorrerà un accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore e finirà la possibilità da parte delle aziende di decidere per lo smart working in modo unilaterale e senza gli accordi individuali previsti dalle legge 81/2017.
E cos’è cambiato nelle aziende dal punto di vista culturale e cosa nella vita dei dipendenti? Per fare il punto su cosa ne sarà dello smart working nel prossimo autunno e capire com’è stato gestito, oltre ai pro e i contro, ne abbiamo parlato con Silvia Zanella, manager e autrice del libro edito da Bompiani “Il futuro del lavoro è femmina”.
La corresponsabilità delle aziende. “Credo che ci sarà una fascia di aziende di avanguardia, multinazionali e grosse organizzazioni che introdurranno lo smart working come sistematico al loro interno. E lo stanno già facendo: EY, Eni, Fastweb, per citarne alcune, stanno creando un nuovo approccio al lavoro, in ottica di maggiore sicurezza e tutela dei lavoratori, ma anche perché, se eviti di fare spostare tantissime persone sui mezzi, pubblici o propri, dai anche il tuo contributo alla salute del Paese. Per le aziende possiamo dire che c’è una parte di corresponsabilità: da un lato non devono tenere ferma l’economia, ma allo stesso tempo devono tutelare il lavoratore. È come se fosse una sorta di dogma”.
Dogma che, come abbiamo visto, è diventato un pensiero e un modus operandi condiviso, ma che come ci ricorda la Zanella, in un certo senso era nell’aria. “Che ci dovessimo avvicinare a una modalità di lavoro agile era evidente anche nel periodo pre-Covid. Sappiamo bene come nessuno alle 18 smettesse di lavorare o evitasse di rispondere alle e-mail anche la sera. Che ci fosse un meccanismo perverso era chiaro così come che lo scivolamento tra dimensione privata e lavorativa fosse sempre dietro l’angolo. Dico tutto questo perché il fatto di non regolamentarlo non poneva l’accento sulla caratteristica fondamentale del lavoro agile: avere fiducia e responsabilizzare la persona, che deve essere ‘accountable’ (che risponde del suo operato e ne rende conto, ndr). Questa cosa doveva finire da tempo, c’era una sorta di spinta del basso”.
Il diverso approccio di grandi aziende e PMI. E se le grandi aziende, vuoi perché sono più strutturate, vuoi perché con più dipendenti all’attivo, continueranno ad adottare tale modalità di lavoro, facendo da “capofila,come più capaci di interpretare la realtà e che possono puntare su un tasso di soddisfazione più forte, di contro”, precisa la Zanella, “ci saranno delle retroguardie che storceranno il naso, pur avendo avuto a disposizione mesi per vedere che la produttività non è legata allo spazio fisico. Ci saranno dunque imprese più piccole e meno pronte managerialmente, tentate dal far tornare tutto come prima, così come ci saranno altri piccoli lockdown che rimetteranno in pista lo smart working”. E se si pensa che tale possibile divisione tra grandi imprese e PMI sia essenzialmente una questione di maggiori disponibilità di risorse, non è esattamente così. “C’entra la questione di avere meno cultura manageriale, le multinazionali fanno dell’avere un top e middle management efficaci il loro punto di forza. Viceversa, le PMI hanno una natura familiare, dimensioni controllabili a vista, mantengono l’approccio del ‘ti voglio vedere’. Ci sono anche legami meno formali che fanno sì che scattino meccanismi di relazione che in qualche modo non giovano alla professionalità”.
Sono necessarie formazione e informazione sullo cultura dello smart working. C’è anche da dire che lo smart working è una modalità di lavoro che ha bisogno di una base da cui partire che, per forza di cose e per l’urgenza della situazione (“mandiamo via tutto prima che possa essere troppo tardi” e anche per l’istituzione della zona rossa in tutta Italia che di fatto è arrivata in un weekend), non è stata creata. Ma che probabilmente adesso non si può più “bypassare”. “Bisogna fare informazione tramite i media, fare formazione a tutti i livelli digitalizzando le professionalità e mettendo in mano gli strumenti alle persone sia tecnici che hardware, lavorare sulle competenze dei manager e di chi li coordina. E ovviamente – cosa che in 6 mesi non poteva succedere – lavorare sulla cultura aziendale, sulla responsabilizzazione e libertà a tutti i livelli”, aggiunge la Zanella.
I pro e i contro dello smart working. A ogni modo, visto che abbiamo – chi più chi meno – fatto mesi di esperienza con lo smart working, si può comunque trarre un bilancio e capire quali sono i reali pro e contro di questa modalità di lavorare.
La parola ancora alla manager: “Non è certo la soluzione di tutti i mali e ovviamente va mixato con la presenza in ufficio, ma sicuramente tra i vantaggi che ci ha portato c’è il fatto di riflettere sulle singole attività che ognuno di noi porta avanti. Adesso non è più così scontato che il brainstorming lo fai in ufficio, ma rifletti sul fatto se possa avere più senso farlo dal vivo o a distanza. Idem per un passaggio di consegne. Vale anche per le riunioni: siccome non vuoi stare troppo fermo davanti al computer, è nell’interesse di tutti sare bene ed essere efficaci. Certo, la dimensione relazione ci è mancata, il mix digitale fisico è imprescindibile così come è importante far in modo che non si parli sempre con i soliti colleghi, ma che ci sia quella contaminazione che viene dagli altri che non lavorano con te, ma sono nella stessa azienda”. “Aggiungo, di contro, che il digitale non è desertificante se vengono messe in campo competenze manageriali e personali che sono legate più a una dimensione di cura, empatia e attenzione all’altro che, come dico nel libro, riconduco al femminile, ma che non sono solo delle donne”.
Un diverso rapporto tra dipendente e datore di lavoro. Ma i pro non finiscono qui: “C’è sicuramente il diverso patto lavoratore-azienda che va in ottica di delega, responsabilizzazione, fiducia, accountability. Altro pro è una diversa gestione della vita professionale e privata (il concetto di bilanciamento è superato), un minor impatto ambientale e anche una maggiore motivazione: quando un collaboratore ha una maggiore consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte è più felice”. La modalità di lavoro agile ha ovviamente anche il retro della medaglia: “Se non hai una disciplina ferrea, difficilmente lo puoi realizzare” chiosa la Zanella. “Non si può poi negare, come dicevamo prima, la mancanza della socialità che va a detrimento della propria creatività. Infine una riflessione: stiamo facendo entrare il lavoro nelle nostre case e la sedia su cui passiamo le nostre ore al computer, non è più della casa, ma del lavoro, così come altri spazi in cui si confondono i due ambiti. La nostra casa cosa pensa di questa invasione di campo?”.
Abbiamo portato l’ufficio in casa: un aspetto su cui difficilmente si riflette. Connesso a quanto dice la manager, altro aspetto su cui dovremmo riflettere non è soltanto l’importanza di attrezzature ergonomiche, fare le giuste pause ecc, ma anche cosa vuol dire portarsi l’ufficio in casa, ossia in quell’edificio che avevamo pensato essenzialmente per stare insieme alla famiglia, rilassarci, fare attività ludiche e sicuramente perché non fosse un secondo ufficio (eccezion fatta magari per chi è freelance). Lo smart working, inoltre, porta la riflessione anche a un livello sociale più ampio: rivitalizzare le periferie, ripensare le città, lavorare al sud, il cosiddetto south working. A prescindere o meno dalla proroga dello stato d’emergenza non si può negare che un cambiamento c’è stato, è profondo e vada “accompagnato”.