Meritocrazia: “Concezione della società in base alla quale le responsabilità direttive e le cariche pubbliche, dovrebbero essere affidate ai più meritevoli, ossia a coloro che mostrano di possedere in maggior misura intelligenza e capacità naturali, oltreché di impegnarsi nello studio e nel lavoro”, recita il dizionario.
Eppure il termine meritocrazia, almeno in Italia, sembra aver assunto negli ultimi anni un valore simbolico, come si trattasse di un balsamo che, cosparso su ogni settore della società – dall’istruzione alla pubblica amministrazione, dal mondo del lavoro alla politica – sarebbe da solo in grado di rilanciare l’economia del Paese, abbattere la disoccupazione e garantire un futuro di prosperità e pace sociale.
Non è così per Fausto Raciti, 29enne deputato del Partito Democratico, segretario nazionale dei Giovani democratici e autore di un battagliero pamphlet, appena pubblicato, dal titolo eloquente: “L’imbroglio della meritocrazia”, in cui l’ideologia del merito viene aspramente contestata. “Senza per questo legittimare il nepotismo, che purtroppo caratterizza tanti settori della società italiana, né l’egualitarismo piatto, il prodotto meno sano del nostro ‘68” spiega l’autore.
In realtà, Fausto Raciti non ha incontrato particolari difficoltà nel rovesciare il concetto meritocratico. E’ stato sufficiente, infatti, citare chi il termine “meritocrazia” l’ha inventato, e con un intento esplicitamente spregiativo: il sociologo inglese Michael Young. Nel suo libro “The rise of meritocracy” del 1958, è proprio lo studioso di matrice laburista a coniare la parola meritocrazia, dipingendola come motore ideologico di una società in cui un sistema sociale basato sulla rigida misurazione di sforzo e quoziente intellettivo, genera un élite oligarchica intenta a preservare se stessa a scapito della democrazia. Un epilogo distopico e orwelliano, quello descritto dall’autore inglese, ma dalle connotazioni tecnocratiche ante litteram. Ciò che per Michael Young mancava nell’Inghilterra degli anni ’50 è ciò che per Fausto Raciti manca nell’Italia di oggi: la difesa dell’uguaglianza, parola che l’ideologia meritocratica tenderebbe a cancellare.
Fausto Raciti, l’Italia è un paese bloccato, la mobilità sociale è ridotta all’osso e gli episodi di nepotismo in alcuni settori sono endemici. Era il caso di prendersela proprio con la meritocrazia?
Direi di si, perché in molti ambienti politici ed intellettuali ormai si dà per acquisito il senso positivo di questa parola. Al contrario, ritengo che la meritocrazia serva in molti casi a giustificare furbamente il familismo e l’immobilità sociale. La meritocrazia intesa come ideologia fornisce persino una dimensione “etica” della sconfitta di chi non si afferma nella vita, mentre in realtà moltissimo dipende dalle enormi disuguaglianze sociali. Oggi, in Italia, è molto più facile che un buon voto a scuola sia ottenuto da un ragazzo nato ai Parioli (ndr quartiere in di Roma) che non a Scampia (ndr quartiere periferico di Palermo). In questo non ci vedo “merito” ma solo il risultato di profonde iniquità.
Nel suo libro lei oppone alla meritocrazia altri termini come “economia del merito” e “meritorietà”.
Fare in modo che nei posti di responsabilità, in tutti gli ambiti, siedano persano competenti è, ovviamente, un atteggiamento di buon senso. Premiare il merito va bene, ma non si può costruire un sistema che discrimini tutti gli altri. In Italia la selezione è ancora di censo e per capirlo basta dare uno sguardo alle nostre scuole medie: alla fine dei tre anni, quando si è ancora essenzialmente bambini, i più bravi vanno ai licei e gli altri, nella maggioranza dei casi provenienti da famiglie più umili, sono costretti alle scuole professionali se non addirittura ad abbandonare gli studi. Un fatto certificato dall’elevatissimo e intollerabile dato della dispersione scolastica. Il compito della scuola, invece, dovrebbe essere quello di far emergere il talento e limare le disuguaglianze, non espellere i più dalla possibilità di incidere nella società. L’idea educativa vincente deve ispirarsi al modello di don Milani e generare una scuola attenta, sensibile, in cui il talento non si misura solo in base al profitto che potrà generare. Una scuola che, offrendo di più, può permettersi di pretendere di più dagli studenti. Poi, ovviamente, nell’istruzione specializzata e nel mercato del lavoro ci sarà una selezione, ma a partire da una platea più vasta di persone. In questo modo anche la classe dirigente sarà, nel complesso, più qualificata, perché selezionata da un bacino più ampio candidati. In Italia, per fare un esempio, eccelliamo nel calcio perché in tantissimi giocano, e questo concetto va applicato anche al nostro sistema educativo. L’esempio virtuoso è quello dei paesi scandinavi, in testa alle classifiche di mobilità sociale perché capaci di porre un limite forte alle diseguaglianze.
Nel libro lei sostiene che, per valorizzare il lavoro giovanile, è necessario un cambio culturale anche nel mondo dell’imprenditoria.
Il problema culturale del sistema produttivo e imprenditoriale italiano è evidente. La creatività e l’intelligenza dei ragazzi è troppo poco richiesta nel nostro mercato del lavoro, e il tasso elevato di laureati senza occupazione lo dimostra. Questo è il risultato dell’assenza di politiche pubbliche in grado di governare un’autentica riconversione industriale nel nostro Paese, che spinga il sistema imprenditoriale a puntare sulla ricerca e sul valore aggiunto.
Qualsiasi riforma deve, ovviamente, partire dalla politica. Ma come può il ceto politico scardinare il nepotismo e garantire l’uguaglianza se la selezione della sua classe dirigente non è trasparente? Esistono, in altri termini, criteri di merito per chi fa carriera nei partiti politici?
Partiamo da un presupposto: in democrazia il merito politico dovrebbe essere il consenso ottenuto dai cittadini. Oggi nei partiti, invece, la fedeltà e l’ubbidienza al capo prevalgono sulla fiducia della comunità degli iscritti o degli elettori. Insomma, i partiti lideristici sono stati e sono ancora un problema nel nostro paese. Fino a quando la mentalità non cambierà in senso più democratico, sarà difficile che, dalla politica, s’irradi un cambiamento virtuoso nella società.
1 commento
Non è il merito “in astratto” l’imputato, bensì il criterio, le modalità di identificazione del merito che vanno riviste. Economicamente insostenibile -rispetto alle platee nord europee- la fuoriuscita di una pletora di aspiranti lavoratori dalle università o dalle scuole professionali che solo successivamente subiranno la naturale selezione lavorativa. Forse sarebbe meglio una “previsone lavorativa” all’atto dell’ingreso in università (o alle scuole professionali) sulla base delle esigenze del mercato. Ma tali esigenze, come la politica industriale di un paese, va fatta da una classe politica in grado di smarcarsi dall’influenza del capitale e dei poteri forti. Una classe dirigente, in altre parole, che appartiene alla migliore tradizione politica del nostro paese : quella di Togliatti e del cappotto di Attilio Piccioni.