Sudati, più irritabili, meno concentrati e più lenti nelle reazioni. Si potrebbe dire che questa è la condizione dei lavoratori alle prese con ‘il grande caldo’. Il tema di come l’afa incida anche sulla produttività del lavoro è stato affrontato anche scientificamente dai ricercatori della National oceanic and atmospheric administration (Noaa) statunitense, che, in uno studio pubblicato pochi mesi fa dalla ‘Nature Climate Change‘, addirittura calcolavano come il surriscaldamento globale e l’aumento dell’umidità abbiano portato a una riduzione della capacità di lavoro del 10% nei mesi più caldi degli scorsi decenni. E calcolavano una proiezione secondo cui nel 2050 questo calo sarebbe raddoppiato arrivando al 20% e nel 2200, quando la maggior parte delle latitudini tropicali e medie vivranno stress climatologici e di calore estremi, addirittura al 40%.
“In realtà – spiega a Labitalia Antonio Telesca, vicepresidente nazionale dell’Ordine degli psicologi – fra l’evento esterno che ci colpisce e la risposta che viene data, esiste sempre una reazione soggettiva. Ovvero, se ad ogni evento esterno come può essere un forte caldo, o un trauma o una cattiva notizia improvvisa, reagissimo tutti allo stesso modo avremmo delle evidenze statistiche tali da non lasciare dubbi. E non è così -osserva- perchè le reazioni cambiano molto da individuo a individuo”.
“Nel caso del caldo, poi, occorre considerare -aggiunge Telesca- che l’essere umano è dotato di una buona capacità di adattamento anche a climi estremi, molto freddi o molto caldi. Il problema, semmai, è la rapidità con cui si passa da una condizione climatica a un’altra, perchè più repentino è questo passaggio (cosa spesso verificatasi in questi anni) più difficile è l’adattamento”. Comunque sia, spiega l’esperto, “è vero che con il forte caldo, all’interno delle varie soggettività, si sperimentano molti fenomeni di irritabilità, rallentamento di attività motorie e difficoltà di concentrazione, fenomeni che vengono attenuati da meccanismi di compensazione se il clima si stabilizza”. Insomma, quello che ci fa male, da tutti i punti di vista, “sono gli sbalzi improvvisi”, sostiene Telesca.
E c’è anche chi ha pensato di poter risolvere la questione del cattivo rapporto tra caldo e lavoro con una legge. E’ accaduto in Gran Bretagna, dove qualche giorno fa alcuni deputati laburisti hanno proposto che, in caso di temperatura oltre i 30° (un limite evidentemente alto per il Paese anglosassone ma non per noi ‘mediterranei’), impiegati e operai vengano rimandati a casa. Anche da noi la legge si occupa della temperatura sui luoghi di lavoro. Diverse parti del Testo unico sulla sicurezza (dl 81/2008), infatti, fanno diretto o indiretto riferimento al rischio microclimatico, precisando che, ad esempio, “la temperatura nei locali di lavoro deve essere adeguata all’organismo umano durante il tempo di lavoro, tenuto conto dei metodi di lavoro applicati e degli sforzi fisici imposti ai lavoratori” e che “nel giudizio sulla temperatura adeguata per i lavoratori si deve tener conto della influenza del grado di umidità e il movimento dell’aria concomitanti”.
Non solo. “Le finestre, i lucernari e le pareti vetrate devono essere tali da evitare un soleggiamento eccessivo dei luoghi di lavoro, tenendo conto del tipo di attività e della natura del luogo di lavoro”, dice la nostra norma che non fissa paletti di temperatura, ma si preoccupa del generale benessere del lavoratore. “E’ meglio così -conclude Telesca- perchè, ripeto, non è una soglia ‘x’ di temperatura a far scattare l’allarme, ma la repentinità con cui questa si innalza”. (da LabItalia)