Il Ministero del Lavoro è di recente intervenuto per chiarire ai propri ispettori quali siano i requisiti dei contratti a progetto per i lavoratori operanti nei call center, in particolare in quelli che svolgono attività out bound, alla luce della “disciplina speciale” introdotta, nel settore, dal Decreto Sviluppo (circolare n. 14/2013).
Occorre, a tal proposito definire la nozione di operatore in bound e di operatore in out bound. Mentre il primo non può pianificare la propria attività perchè essa consiste prevalentemente nel rispondere alle chiamate dell’utenza, perciò si limita a mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie psicofisiche per un dato periodo di tempo, l’operatore di call center in out bound ha invece per compito, quello di rendersi attivo nel contattare, per un arco di tempo predeterminato, l’utenza di un prodotto o servizio riconducibile ad un singolo committente. Per le modalità di svolgimento della prestazione, dunque, l’operatore in bound si presta ad essere inquadrato nella tipologia di lavoratore subordinato, mentre “è senz’altro configurabile un genuino progetto (..) con riferimento alle campagne out bound” (così il Min. Lav. in una precedente circolare, la n. 17/2006).
A seguito delle modifiche introdotte dal Decreto Sviluppo alla Legge Biagi (per l’esattezza, al d.lgs 276/2003), per le attività in out bound il ricorso ai contratti di collaborazione “è consentito sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento”. La “specialità” della disciplina di tale contratto consiste appunto in questo: non è richiesto uno specifico progetto né il rispetto delle altre condizioni previste per la generalità dei contratti a progetto. Unica condizione di legittimità per la stipula del contratto è l’“osservanza di un corrispettivo” definito dalla contrattazione collettiva. Quest’ultima previsione assume il valore di norma inderogabile: il contratto di collaborazione a progetto in out bound che non rispetti tale corrispettivo, viene ricondotto al contratto a tempo indeterminato. E ciò a differenza di quanto avviene nella generalità dei contratti a progetto in cui la violazione delle norme sul corrispettivo comporta solo il diritto a un “differenziale economico” e non incide sulla natura del rapporto.
Il Ministero precisa che anche per il contratto di collaborazione nei call center in out bound, valgono comunque i livelli minimi di garanzie “che sarebbe irragionevole non estendere ai collaboratori in questione”, relativi ad esempio alla forma scritta del contratto ai fini della prova e all’obbligo di riservatezza.
Particolarmente rilevante è anche la specificazione, nella circolare in commento, dell’ambito soggettivo e oggettivo di operatività della norma introdotta dal Decreto Sviluppo che regolamenta la delocalizzazione dei call center in Paesi comunitari ed extracomunitari, introducendo specifici obblighi di comunicazione a carico delle aziende che svolgano attività di call center “con almeno venti dipendenti”. In particolare, si prevede che almeno 120 giorni prima del trasferimento di tale attività, l’azienda deve effettuare una comunicazione al Ministero del Lavoro, indicando il numero dei “lavoratori coinvolti”. Ulteriore comunicazione va effettuata all’Autorità garante per la protezione dei dati personali “indicando quali misure vengono adottate per il rispetto della legislazione nazionale, in particolare in tema di privacy”.
Sono interessate da tale disposizione le imprese che svolgono “in via assolutamente prevalente un’attività di call center”. Ne restano, invece, escluse quelle in cui tale attività non è “prevalente” ma consiste, ad esempio, in un mero “sportello di front office”. Il Ministero precisa, inoltre, che il limite dimensionale (“almeno venti dipendenti”) va calcolato considerando sia i dipendenti che il personale in servizio con contratti di collaborazione coordinata e continuativa”.
Quanto all’ambito oggettivo, si precisa che un’attività di call center si ritiene “delocalizzata” quando le commesse, acquisite da una impresa avente sede legale e già avviate nel territorio nazionale, vengano trasferite al personale operante all’estero, generando esuberi o un minor impiego del personale impiegato. Tale trasferimento, precisa il Ministero, può avvenire attraverso l’apertura di nuove filiali o un meccanismo di subappalto.