L’emergenza Covid ha dato l’avvio ad un ampio ricorso alla modalità di lavoro in smart working che, contestualmente, ha innescato un’accesa discussione sulla questione relativa ai buoni pasto. Il nodo da sciogliere, infatti, sta nel comprendere se i dipendenti ai quali è riconosciuto il buono pasto, ne abbiano diritto solo in modalità di lavoro tradizionale oppure se gli spetta anche qualora questi stiano lavorando da remoto. Insieme a Francesco Luongo, presidente del Movimento Difesa del Cittadino, cerchiamo di andare al bandolo della matassa per scovare l’origine del problema e capire come sarebbe possibile risolvere una questione che ad oggi coinvolge 6 milioni di dipendenti.
Partiamo dal tema di fondo: come noto la pandemia in corso attraverso un provvedimento normativo ha “obbligato” il ricorso allo smart working per milioni di dipendenti. Tale passaggio ha evidenziato alcune criticità tra cui la questione del buono pasto che sembra messo in discussione nel lavoro da remoto. Cos’è successo? La discussione sull’opportunità di sviluppare in maniera organica il lavoro da remoto fa ormai parte della nostra quotidianità, e i fattori positivi non mancano. Non dobbiamo però sottovalutare anche i potenziali effetti negativi di questa condizione. Quello che è successo in questi mesi sul tema dei buoni pasto merita attenzione, soprattutto perché figlio di alcune lacune normative che ci portano ad avere interpretazioni contrastanti.
L’interpretazione ministeriale, infatti, ha determinato un non riconoscimento del buono pasto per tutti quei lavoratori che non hanno la possibilità di ottenerli attraverso una contrattazione collettiva specifica. Questo mancato riconoscimento non può passare inosservato, in quanto in un momento così grave per le economie dei cittadini italiani, lo strumento del buono pasto rappresenta anche un importante mezzo di sostegno al reddito, dovendo i lavoratori comunque fare la spesa per mangiare nei giorni di lavoro da remoto.
La questione non è da poco visto che ha coinvolto, secondo i dati del Politecnico di Milano, oltre 6 milioni di dipendenti e che la prospettiva dello smart working farà sempre più parte della “nuova normalità” del lavoro. C’è un tema normativo da risolvere? Come anticipavo, c’è sicuramente un tema normativo da affrontare. L’attuale interpretazione si basa sulla legge n. 81 del 2017 che disciplina il lavoro agile nel nostro ordinamento. Secondo tale disposizione, le condizioni di lavoro agile non possono essere affrontate con contrattazione collettiva, dunque anche aspetti tradizionalmente previsti da questo tipo di contrattazione restano scoperti e soggetti alle concessioni delle singole aziende. E questo è il caso del buono pasto. È tuttavia evidente che questa disposizione risale ad un periodo in cui lavorare da remoto era una scelta prettamente individuale e di opportunità e non, come oggi, figlia di una situazione del tutto eccezionale in cui i dipendenti sono stati costretti a lavorare da casa. Sarebbe opportuno un intervento normativo chiarificatore, che dia pari dignità sia ai lavoratori protetti da contrattazioni collettive, sia a coloro i quali – e sono tanti – non hanno tale possibilità.
Anche il pubblico impiego è pienamente coinvolto dalla questione. Non solo per gli ambiziosi piani di diffusione dello smart working, che risalgono anche alla fase pre-pandemica, con quasi due milioni di dipendenti coinvolti. Anche qui si naviga a vista però. È notizia di questi giorni che c’è una situazione a macchia di leopardo in cui ci sono uffici pubblici che li hanno e altri no. È necessario un intervento normativo anche in questo caso? Come spesso accade, la realtà fattuale della società supera la lenta macchina burocratica e normativa, e quello che stiamo vedendo in questi mesi sul tema del lavoro agile ne è la prova. Lo studio del Politecnico di Milano ci dice che la diffusione di questa forma di lavoro sia stata piuttosto democratica ed orizzontale, coinvolgendo in egual proporzione sia i dipendenti delle grandi aziende, sia i lavoratori delle piccole medie imprese, passando per le amministrazioni pubbliche. È chiaro che il punto di arrivo sarà una regolamentazione chiara ed univoca per tutte le categorie di lavoratori e per tutti gli uffici, senza distinzioni in merito, e indubbiamente ciò può essere perseguito soltanto attraverso interventi normativi aggiornati alla nuova condizione del nostro paese.
Quali sono le ragioni che avanzano coloro che non sono d’accordo nel riconoscere il buono pasto per chi lavora in smart working? C’è in primis da considerare la già citata legge n. 81/2017, che rappresenta comunque un punto di riferimento legale sul riconoscimento dello strumento del buono pasto. Superficialmente, viene anche affermato che un lavoratore che non si reca sul posto di lavoro risparmia i soldi necessari al pranzo, potendo consumare il suo pasto comodamente da casa. Ciò non considera tuttavia l’aumento dei costi derivanti dal lavoro in remoto, come un incremento del consumo di energia elettrica, e dunque delle utenze, l’aumento dei costi della spesa, e non dimentichiamo un generalizzato calo della qualità di vita familiare, dove si perde ogni spazio per la propria privacy e spazio personale.
Il suo movimento ha lanciato una campagna per il “diritto” al buono pasto anche in smart working. Quali sono le vostre richieste? La posizione del Movimento Difesa del Cittadino è sempre a difesa delle fasce di popolazione più deboli e meno tutelate. Ricordiamo infatti che il buono pasto, per le fasce di reddito più basse, può rappresentare fino a una mensilità aggiuntiva sul reddito annuale. È per tali ragioni un importante strumento di sostegno al reddito e rappresenta dunque una misura di Welfare a cui non possiamo rinunciare; il valore etico che sottende al buono pasto si connette anche alla considerazione che contribuisce a soddisfare un bisogno primario come quello dell’alimentazione.
Come MDC, dunque, chiediamo che vi sia finalmente chiarezza dal punto di vista normativo per considerare l’importanza del buono pasto anche, e soprattutto, in una condizione di lavoro da remoto forzato come quella che stiamo vivendo ormai da quasi un anno.