Può capitarti di scoprire un antico mosaico del I secolo a.C., d’imbatterti in antichi sarcofagi e misteriose monete. Può capitarti ancora di progettare allestimenti e mostre, coordinare grafici, disegnatori e restauratori. Il mestiere dell’archeologo è quanto mai vario e sfaccettato, forse poco definito e – secondo alcuni professionisti – poco tutelato.
Se provassimo a tracciare il profilo di un archeologo italiano, verrebbe fuori quello di una giovane donna freelance, con alta formazione e competenze multidisciplinari, una donna che prova in tutti i modi ad affermarsi come professionista, ma che rischia quotidianamente di rimanere impigliata nella trappola della precarietà. Un identikit ricostruibile con precisione grazie ai dati del censimento nazionale, promosso dall’Associazione Nazionale Archeologi, cui hanno risposto 835 archeologi.
Gioia e dolore del cantiere – “E’ un mestiere che ti sorprende ogni giorno – racconta Salvo Barrano, archeologo a partita iva -. E’ indescrivibile l’emozione che si prova quando si scoprono dei resti antichi sottoterra. Mi è capitato a Roma, poco tempo fa, quando all’interno di un cantiere a sei metri di profondità, è improvvisamente venuto alla luce un antico mosaico che apparteneva a Villa Caligola”.
Dopo la scuola di specializzazione in archeologia classica a Roma, Salvo Barrano ha iniziato a lavorare su diverse commesse, grazie a committenze private e pubbliche. “E’ molto difficile coniugare gli impegni di lavoro con la ricerca di nuovi progetti – dice -. Quando si è freelance, come me, bisogna continuamente cercare le offerte sul mercato ed essere sempre pronti a iniziare a lavorare in nuovi cantiere. Bisogna essere dinamici e soprattutto essere specializzati su più campi”.
Per quanto il patrimonio artistico del nostro Paese sia un bene tutelato dalla Costituzione italiana, all’archeologo manca un vero e proprio riconoscimento pubblico e, spesso, il suo lavoro viene sottovalutato. Attualmente infatti non esiste alcuna forma di riconoscimento professionale per l’archeologo, perché la normativa italiana non fissa dei requisiti minimi (titoli, curriculum, esperienza) per l’esercizio della professione. Al contrario della figura del restauratore, ad esempio, nel Codice dei Beni Culturali non compare mai la parola archeologo.
“La nostra è sicuramente una professione magmatica – commenta Barrano-. Oggi giorno ci si trova a doversi creare una posizione e a difendersi dall’aggressività del mercato. Il nostro ruolo, poi, è sempre messo in discussione anche all’interno del cantiere: spesso, quando si cerca di convincere geometri e direttori della sicurezza ad ampliare uno scavo, per tutelare al meglio il nostro patrimonio, la richiesta viene interpretata come un capriccio”.
In Italia sono riconosciuti e qualificati ufficialmente come archeologi soltanto i dipendenti pubblici del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che costituiscono una media di appena un archeologo ogni circa 1.200 chilometri quadrati di territorio nazionale.
“Nonostante questo – conclude l’archeologo – penso che sia il lavoro migliore del mondo. Ti sorprende, ti sconvolge, insomma ti lascia sempre senza fiato. E’ complicato sì, ma ne vale la pena”.
Vita da museo – Francesca Morandini lavora al Museo di Brescia. E’ la responsabile del servizio collezioni e aree archeologiche. Dopo una laurea in lettere classiche e tre anni di specializzazione in archeologia, a cui ha affiancato anche il dottorato, ha iniziato a lavorare nei musei. Ne sono nate collaborazioni e progetti per piccole esposizioni: dopo 13 anni di precariato, però, è stata ufficialmente assunta al Museo di Brescia, vincendo l’ultimo concorso indetto in città.
“Si potrebbe pensare che il mio sia un lavoro noioso – spiega Morandini -, perché non lavoro sui cantieri o in mezzo agli scavi. In realtà, però, la mia attività è molto stimolante. Mi permette di occupare più posizioni, lavorando con strumenti diversi. E’ un modo per crescere in continuazione, senza fossilizzarsi su una sola specializzazione”.
Francesca Morandini, infatti, si è occupata del recupero di un’area archeologica della città, lavorando al fianco d’ingegneri, strutturisti, architetti e restauratori. Poi, si è anche imbattuta nell’iscrizione del museo al Patrimonio dell’Unesco: “Un lungo progetto, durato oltre tre anni – spiega l’archeologa bresciana -. Ho dovuto prensentare un dossier scientifico, con un piano di gestione ben preciso. Ho dovuto dimostrare anche capacità progettuali, che non ci si aspetterebbe da un archeologo”.
C’è di più: un archeologo si occupa anche di attività didattiche, può lavorare nel mondo dei viaggi specialistici, preparare gli operatori di un museo e stilare le guide. Attenzione, però, se si vuole uscire dal precariato, la via più semplice è il mercato estero: “Chi è impiegato nelle cooperative di scavo, a causa delle contrazioni dei cantieri, lavora molto meno che in passato – ammette Morandini -. Anche quando sono entrata io nel mondo del lavoro la situazione non era comunque delle migliori. All’estero però il sistema è più dinamico, soprattutto in ambito didattico e museale. In Italia sia portati a credere che bisogna invecchiare per avere una certa autorevolezza, nel resto dell’Europa invece a quarant’anni si è già considerati fuori mercato”.