Il decreto rilancio, che vale 55 miliardi di euro, è la manovra economica più imponente della nostra storia repubblicana. Come si è giunti a questo provvedimento, quale lo spirito di fondo che ha ispirato l’azione economica del Governo fin qui, le risorse europee e le critiche ai decreti. Intervista di ampio respiro a Pier Paolo Baretta, veneziano, sottosegretario al Ministero dell’Economia e Finanza, incarico già ricoperto nei governi Letta, Renzi e Gentiloni, e un passato da dirigente di primo piano nella Cisl. Già parlamentare del Pd è il prossimo candidato a sindaco di Venezia per il centro-sinistra. (L’intervista è stata realizzata in occasione di un webinar organizzato dall’Aidp Toscana e dal suo presidente Emanuele Rossini).
Partiamo da una valutazione generale. Il decreto rilancio stanzia 55 miliardi di euro ed ha una portata storica per le manovre finanziarie del nostro Paese. Circa la metà di queste risorse sono per le proroghe delle misure di sostegno al reddito dei lavoratori dipendenti e autonomi come previsto nel decreto Cura Italia, e poi c’è la parte di sostegno alle imprese e alla domanda. Un decreto che ha visto una lunga fase di gestazione dovuta anche all’esigenza di mediazione tra le diverse anime del governo Conte bis e composto da ben 256 articoli, che da più parti è stato considerato eccessivo. Qual è lo spirito di fondo delle misure fin qui adottate?
Ci siamo trovati di fronte una situazione imprevista e sconosciuta sia dal punto di vista sanitario che economico. Quando succede un fatto straordinario come un terremoto, per intenderci, abbiamo dei protocolli e delle procedure da seguire. In questo caso, invece, ci siamo trovati a dover fronteggiare un quadro assolutamente inedito e senza precedenti. La chiusura completa della nostra società è un fatto che non ha precedenti nella storia. Nemmeno in un contesto di guerra si chiude tutto. In guerra non si chiudono le fabbriche. Dal punto di vista storico ci può essere un accostamento con altre pandemie ma la chiusura quasi totale dell’economia non è mai successa. In questo contesto inedito, inoltre, siamo stati la prima democrazia al mondo a dover governare un’emergenza epocale come questa. Dovevamo dare risposte rapide. A fronte di questo ci siamo chiesti quali potevano essere le conseguenze più immediate e preoccupanti sul piano economico-sociale. Ne abbiamo individuate due: era evidente che la chiusura delle attività economiche avrebbe comportato un elevato livello di disoccupazione e di generale impoverimento della popolazione con una caduta del reddito; contestualmente avremmo avuto una crisi pesante dell’apparato produttivo e sapevamo che ci sarebbe stato un crollo. Di fronte un rischio come questo la prima reazione è stata quella di tamponare la situazione condizionati, com’è evidente, dalle priorità della salute pubblica e dei parametri indicati dagli esperti in questo senso. La preoccupazione maggiore che abbiamo avuto di fronte il combinato dell’abbassamento dei livelli di reddito e della crisi del sistema produttivo è che ci saremmo trovati un’ondata di licenziamenti. Da qui la decisione di puntare subito sulla cassa integrazione guadagni per tutte le aziende italiane, da un dipendente in su e per tutti i settori produttivi, compresi quelli che non avevano la cassa. A questa misura si è aggiunta il blocco dei licenziamenti economici individuali e collettivi. In più, abbiamo pensato al variegato mondo del lavoro autonomo in generale con un provvedimento di sostengo al reddito, apparentemente modesto ma che ha coinvolto una platea di 5 milioni di persone.
All’inizio dell’emergenza i numeri della manovra economica sono cambiati molto spesso.
Ricordo da dove siamo partiti con le prime stime economiche dei primi decreti: siamo passati da una previsione di 3, 7, poi 13 e infine 25 miliardi con il primo decreto. Questo perché la situazione era in rapida evoluzione. Questo ci da l’idea di come l’economia è stata travolta. C’è stato poi il secondo decreto pesante con 55 miliardi (il decreto rilancio), affinato nell’arco di circa 40 giorni, dove abbiamo reiterato la cassa integrazione con altre 9 settimane e rivisto i cavilli burocratici che hanno generato i ritardi nei pagamenti – ma quel che serve è una riforma degli ammortizzatori sociali – e potenziato le altre misure di sostegno al reddito e allo stesso tempo scelto di entrare nel gioco del rilancio con interventi a fondo perduto per le imprese e con varie misure di sostegno. Per inciso, tutti questi interventi fatti in questi mesi sono a fondo perduto. In generale, con queste misure abbiamo assecondato la richiesta del paese che chiedeva misure urgenti di sostegno al reddito. E chiaro che le conseguenze economiche dell’epidemia saranno peggiori di quelli sanitarie. Questi provvedimenti hanno avuto lo scopo di tamponare questa fase in attesa che l’economia si riprenderà. Ma da questo punto di vista, devo dire, vedo una scarsa analisi previsionale sulla ripresa economica. Ci sono settori che riprenderanno regolarmente ma altri che faranno più fatica. La partita è appena cominciata e il prossimo appuntamento è la Legge di Bilancio.
Entriamo nel merito evidenziando alcune critiche emerse. Sappiamo il contesto di profonda crisi e di emergenza inedita che dobbiamo affrontare. Ci attendo un calo del Pil di oltre il 9 per cento secondo le stime della Banca d’Italia e una riduzione fino ad 1 milione di posti di lavoro secondo Confindustria. Un quadro generale da far tremare i polsi. In questo contesto ci sono settori più colpiti di altri, si pensi al turismo ma anche all’automotive, due ambiti strategici per il nostro Paese. Le risposte date in questi due ambiti sono molto discusse. O meglio, il turismo attraverso lo stimolo della domanda con il bonus vacanze e l’automotive che non ha previsto nessuna risorsa. Perché non avete scelto la strada del sostegno all’offerta nel settore turistico e scelto di non dare nessun incentivo all’automotive?
Sul turismo abbiamo scelto di sostenere la domanda con il buono vacanza e puntato sullo stimolo del turismo italiano. Insomma, puntiamo anche sugli “italiani in Italia” con il cosiddetto turismo a chilometro zero. Su questo c’è stata una polemica che capisco poco. Alla fine se le strutture non hanno clienti è evidente che c’è un problema e la nostra scelta è stata quella di introdurre uno stimolo in questo senso. Sollecitare le famiglie italiane ad andare in vacanza, anche per pochi giorni, può in parte rilanciare il settore. Puntiamo a favorire il turismo di prossimità. Certo, la misura di sostegno è sotto forma di credito d’imposta ma che può ovviamente essere recuperato. Non penso che sia possibile aiutare il settore se non si stimola, oltre l’offerta, anche la domanda. Il 2020 è un anno di transizione, in cui avremo comunque una parte di turismo straniero. Non dimentichiamo che siamo il Paese che ha il 75 per cento del patrimonio artistico, archeologico e storico del mondo. Certamente l’intervento sul turismo ha bisogno di una visione strategica e di investimenti. Le previsioni dell’Enit ci dicono che si tornerà alle condizioni pre-emergenza Covid 19 nel 2023. Quando ripartirà il movimento internazionale l’Italia tornerà ad attrarre turismo come ha sempre fatto. Sull’automotive ho un’opinione molto personale. Temo che questo settore strategico per l’Italia abbia bisogno di qualche mese per ripartire. Non è in questo momento il primo pensiero degli italiani quello di acquistare una macchina. Ma la domanda politica è un’altra: siamo sicuri che un sostegno pubblico inverta la tendenza? Se noi mettiamo un pacco di soldi in un mercato che poi non riparte richiamo di tenere bloccate ingenti risorse e non possiamo permettercelo. Non sarebbe sufficiente un intervento immediato. So bene che il settore dell’automotive è di importanza strategica per l’Italia e soprattutto per le nostre esportazioni. Ricordo che una delle ragioni per le quali la Merkel ha cambiato posizione sui Recovery Found è perché le grandi case automobilistiche tedesche hanno chiesto pubblicamente di non penalizzare l’Italia che produce la migliore componentistica per auto e di cui la Germania è importatore.
Il neo Presidente della Confindustria, Carlo Bonomi, ha parlato di sentimento antindustriale che in qualche modo è stato favorito anche da alcune componenti del Governo. Cosa risponde?
Siamo il secondo Paese industriale d’Europa e dobbiamo esaltare i nostri settori. Non è possibile che il presidente degli industriali dica una cosa di questi tipo. Certo, qualcuno anche nell’ambito del Governo e in modo isolato può aver fatto qualche uscita discutibile ma non è questo il punto. Non dobbiamo esaltare strumentalmente le problematiche ma dobbiamo far leva sui nostri punti di forza. Questo è quello che dovrebbero fare le grandi organizzazioni di rappresentanza. Quando le associazioni delle imprese hanno posto il problema dell’Irap in quattro giorni l’abbiamo risolto. Dobbiamo rilanciare lo spirito della ricostruzione, come quello visto molto bene nella firma del protocollo con sindacati e imprese per gestire al meglio il lookdown. Torniamo tutti a quello spirito come ha ricordato anche il Capo dello Stato in occasione delle celebrazioni del 2 giungo.
Veniamo ai provvedimenti sul lavoro che rappresentano la fetta più consistente della manovra e che sostanzialmente finanzia soprattutto le misure di sostegno al reddito e gli ammortizzatori sociali già previsti nel decreto Cura Italia. C’è la novità del Credito d’emergenza per le famiglie più bisognose. Alcuni interventi di potenziamento dello smart working (divenuto un diritto dei lavoratori) e sui contratti a termine. E poi c’è la questione della responsabilità civile e penale in capo all’azienda nei casi di covid 19 dei dipendenti che ha suscitato un vespaio e che mi sembra ancora da risolvere. Sul tema del blocco dei licenziamenti, però, economici fino al 17 agosto c’è chi ha sollevato dubbi di costituzionalità da più parti.
Non sono un giurista o un costituzionalista ma ho l’impressione che l’articolo 1 della nostra Costituzione faccia chiudere il dibattito. Considero ovviamente legittimo il punto di vista accademico ma non sostenibile dal punto di vista politico. La situazione è di merito è riguarda il concetto di mantenimento dei livelli occupazionali. Dobbiamo affrontare situazioni di crisi e gestire i livelli occupazionali e da questo punto di vista considero decisivo il coinvolgimento dei sindacati.
Decreto liquidità. Ad oggi le criticità emerse sono legate soprattutto alla potenza di fuoco annunciata, ossia 400 miliardi e alle reali somme sbloccate. Il sistema bancario ha risposto a macchia di leopardo e in diversi casi ha agito come se la garanzia dello stato non esistesse. Ci sono state le polemiche sulla richiesta di prestito della Fca. C’è poi il piccolo articolo dedicato al lavoro che ha suscitato molti dubbi da parte dei giuslavoristi laddove si dice che: “l’azienda beneficiaria dei finanziamenti con parziale garanzia dello stato si impegna alla gestione dei livelli occupazionali in accordo con i sindacati”.
Lo dico chiaramente. Per me tutta la polemica intorno alla richiesta di prestito da parte di FCA la trovo inutile e stucchevole e su questo concordo con l’opinione espressa dal leader dei metalmeccanici della Cisl, Marco Bentivogli. Rispetto ai ritardi nell’erogazione dei prestiti, parlo soprattutto di quelli garantiti al cento per cento dallo Stato, nel decreto rilancio siamo intervenuti per mitigare la responsabilità penale e civile dei funzionari bancari sull’erogazione dei prestiti, che ha fatto in parte da tappo a tutta la procedura, e questo dovrebbe accelerare l’iter cosi come immaginato all’origine. Rispetto all’unica noma lavoristica presente nel decreto liquidità e citata nella domanda, ribadisco, considero centrale il coinvolgimento dei sindacati nella gestione degli effetti occupazionali in un contesto fortemente critico come quello che dobbiamo affrontare. E’ un elemento di garanzia sociale per tutti e si tratta di una fondamentale scelta politica.
Veniamo al tema centrale delle risorse e il rapporto con l’Europa. Se dovesse andare in porto il piano Next Generation EU presentato dalla Commissaria europea Ursula Von der Leyen da 750 miliardi di euro, all’Italia, si dice, spetterebbero 80 miliardi di sovvenzioni e 90 miliardi di prestito rimborsabili a lungo periodo. Sicuramente una grande boccata d’ossigeno. Qui, tuttavia, gli interrogativi sono almeno 4: come si ripaga l’Unione europea questo debito? Si parla di nuove tasse europee e l’Italia in che modo contribuirebbe? I tempi di disponibilità effettiva di queste risorse? E poi, come sa, parte dell’opposizione teme condizionalità. Infine, come verrebbero spesi?
Intanto diciamo che stiamo andando verso la direzione giusta. Non si tratta di un grande bluff come qualcuno anche contro l’evidenza vuol far intendere e riconosciamo che l’Europa c’è. Non è casuale che l’Italia abbia fatto una battaglia molto forte trainando su questo fronte anche la Spagna e la Francia. Per noi è fondamentale poter accedere alle risorse previste nel piano cosiddetto Next Generation da 750 miliardi. E’ vero, i tempi non saranno brevissimi ma i fondamentali della nostra economia sono robusti e possiamo gestire la situazione attuale in attesa delle ingenti risorse che potrebbero arrivare. E poi, nel momento in cui sapremo che queste risorse ci saranno si innesca comunque un circolo virtuoso. Sono risorse per noi indispensabili e una parte di questi contributi comunque arriverebbero per fine anno con la legge di bilancio. Respingo al mittente l’allarme sulle condizionalità che non ci saranno. Attenzione, qui non stiamo parlando del Mes. La vera novità è che questi soldi sono devoluti dalla Commissione europea e il fatto che vengano reperiti sul mercato la trovo un’opzione di grande interesse. Si tratta per la prima volta di un debito pubblico europeo. Più complesso invece il tema dei piani di spesa. Si tratta di risorse legate a dei programmi e non possiamo perdere questa occasione altrimenti la situazione sarebbe drammatica. Qui c’è l’essenza di un vero patto sociale con programmi di spesa finanziati.
Il Mes e la sanità. Attiverebbe queste risorse per modernizzare il nostro sistema sanitario? Visto che il tema dello sviluppo digitale è al centro delle line di crescita dei prossimi anni non sarebbe questa l’occasione di fare un grande piano di telemdicina e telesalute per l’Italia che avrebbe anche enormi impatti in casi di gestione delle epidemie?
Sono favorevole all’attivazione dei fondi del Mes, senza condizionalità, per i circa 83 miliardi stabiliti e vincolati alla spesa sanitaria per un grande piano di rinnovamento della nostra sanità, anche in ottica di prevenzione e investendo sulla sanità di territorio.
Tutto questo enorme indebitamento che impatti avrà sulla tenuta del nostro debito pubblico?
Per far fronte all’emergenza la leva del debito è stata fondamentale. Sono saltati i parametri precedenti e come noto il livello del disavanzo pubblico per quest’anno è al 10,4 per cento e per l’anno prossimo al 5,7 per cento. Il combinato tra aumento del deficit e recessione economica porterà il livello del debito pubblico a 155,7 per cento del Pil, ossia quasi 2.600 miliardi di euro. C’è da dire, tuttavia, che il debito pubblico è cambiato ed è schizzato in alto ovunque. Va visto in una chiave nuova e sovranazionale. E poi ricordiamo che l’Italia ha almeno due fondamentali che sono di grande aiuto: abbiamo molti investitori nazionali e uno dei livelli di risparmio privato tra i più rilevanti al mondo.