Una lista lunghissima di compagnie hanno deciso di ritirare, per un determinato periodo di tempo, le proprie inserzioni sui principali player digitali. Una campagna dal nome “Stop Hate for Profit” che potrebbe cambiare profondamente il mondo dell’advertising. Il numero dei marchi che hanno aderito a questo moto di protesta è davvero impressionante: da The North Face a Unilever, da Patagonia a Verizon, passando per Microsoft, Reebok, Ford e HP. L’ultima in ordine temporale, ma non per importanza, è stata Coca-Cola.
Nel mirino del boicottaggio sono finite le Ott, Over the top, cioè le principali piattaforme di Social Network che negli ultimi anni sono stati i principali attori della pubblicità online. La società che maggiormente ne ha risentito è stata Facebook, principale player nel mirino della protesta, che la scorsa settimana ha visto le proprie azioni perdere oltre l’8,3%, equivalente a circa 7,2 miliardi di perdita per il CEO.
L’origine e l’idea di “Stop Hate for Profit”. Tale movimento di protesta ha preso piede ad inizio di giugno. Sotto la costante pressione di grandi organizzazioni per i diritti civili, come la National Association for the Advancement of Colored People, oltre cento inserzionisti hanno aderito alla protesta. Molte sono per lo più piccole e medie aziende, che tuttavia rappresentano la maggior parte degli otto milioni di inserzionisti della società di Zuckerberg. Durante il corse delle settimane, il numero delle grandi aziende che hanno aderito a tale movimento è andato via via crescendo.
L’idea di fondo della campagna ruota attorno ai contenuti di sfondo razziale, i quali spesso vengono diffusi sulle piattaforme social. Una questione di costante dibattito che si accentuata con la nascita del movimento “Black Lives Matter” e la controversa scelta di Mark Zuckerberg di non rimuovere o segnalare i dibattuti post del Presidente americano, Donald Trump, sulle manifestazioni successive alla morte di George Floyd. Queste scelte furono ritrattate dal numero uno di Facebook, ma troppo tardi.
Il fine. L’obiettivo del boicottaggio è facilmente intuibile: la maggior parte degli introiti delle piattaforme di Zuckerberg deriva dalle inserzioni a pagamento delle grandi aziende finalizzate al raggiungimento di una abnorme platea di oltre due miliardi di utenti. Basti pensare che Facebook lo scorso anno ha guadagnato circa 70,7 miliardi, di cui il 69,6 proprio grazie ai suddetti annunci pubblicitari. Per certi versi, la campagna ricorda la medesima scoppiata a seguito dello scandalo di Cambridge Analytica, ma con un’intensità estremamente maggiore. L’obiettivo di Stop Hate for Profit, o sarebbe meglio dire la speranza, è quello di spronare un numero alto di compagnie a aderire alla protesta, in modo da generare una perdita tale da spingere il Ceo di Facebook ad agire con più decisione.
Limiti e critiche. “La campagna non serve, le aziende non hanno sospeso gli investimenti al 100%” ha affermato la giornalista Shoshana Wodinsky. Come spiega la reporter nella sua inchiesta per Gizmodo, sulla carta la strategia non fa una piega, ma nel concreto le grandi aziende, contattate direttamente dalla stessa giornalista, non hanno confermato il loro impegno pieno. Infatti, nessuna di queste grandi compagnie ha eliminato il 100% degli investimenti pubblicitari sulle varie piattaforme di proprietà di Zuckerberg. Nel report viene specificato che molte aziende hanno messo in pausa l’acquisto di inserzioni su Facebook, ma non su Instagram.
Diverse altre società, inoltre, pur fermando l’acquisto di advertisement su entrambe le piattaforme, non lo hanno fatto per quelle condotte sul Facebook Audience Network, mentre molte altre hanno sospeso gli investimenti nei soli Stati Uniti. Naturalmente, lasciando invariati gli investimenti su altri Paesi. L’articolo d’inchiesta evidenzia una questione estremamente delicata: l’azione di boicottaggio può funzionare solo se le società coinvolte sono decise ad andare fino in fondo e a chiudere l’afflusso di fondi ai social network incriminati. Il rischio è che la campagna Stop The Hate for Profit possa divenire solo una mossa di marketing impossibilitata a fare la benché minima differenza.
La risposta di Facebook. Nel frattempo, Zuckerberg lancia la sua contromossa, annunciando “nuove etichette” per i post relativi alle elezioni politiche. Il numero uno di Facebook ha spiegato “Investiamo miliardi di dollari ogni anno per mantenere la nostra comunità sicura e lavoriamo costantemente con esperti esterni per rivedere e aggiornare le nostre policy. Ci siamo sottoposti a una audit sui diritti civili e abbiamo bandito 250 organizzazioni della supremazia bianca da Facebook e Instagram.”
“Gli investimenti che abbiamo fatto in Intelligenza Artificiale ci permettono di individuare quasi il 90% dei discorsi d’odio su cui interveniamo prima che gli utenti ce li segnalino, mentre un recente rapporto dell’Unione Europea ha rilevato che Facebook ha esaminato più segnalazioni di hate speech in 24 ore rispetto a Twitter e YouTube. Sappiamo di avere ancora molto lavoro da fare, e continueremo a collaborare con i gruppi per i diritti civili, il Garm e altri esperti per sviluppare ancora più strumenti, tecnologie e policy per continuare questa lotta”. Al di là delle parole, al momento non sono stati rivelati grossi cambiamenti da parte di Facebook. Solo il tempo dirà se questa campagna avrà sortito un effetto concreto o meno.