L’affaire Google-Huawei, come si può benissimo immaginare, è soprattutto una questione di natura politica ed economica. C’è di mezzo, senza dubbio, anche una questione di sicurezza nazionale, legata alla possibilità che Huawei possa spiare attraverso i suoi dispositivi le comunicazioni delle agenzie governative e dei cittadini americani (ragione per cui i suoi apparati di rete, come quelli dell’altra cinese Zte, sono già stati messi al bando negli Usa mesi e mesi fa) ma perché questa intransigenza deve ricadere automaticamente sui consumatori europei? Facebook e la stessa Google, e lo stesso vale per Amazon e molti altri, forse non ci stanno “spiando” da anni in cambio dell’utilizzo gratuito di alcuni loro servizi digitali?
Semplificando, forse eccessivamente, il nodo della questione e ragionando squisitamente da utenti, è forse lecito chiedersi: perché un utente italiano (europeo) di un notebook Windows e/o di uno smartphone Android a marchio Huawei deve vedersi compromesso in modo sostanziale l’esperienza d’uso dei suoi dispositivi per una presa di posizione che tutela gli interessi (economici) di un solo Stato?
Protezionismo e globalizzazione. Riportando invece la discussione su un piano più strategico, ci si domanda perché gli Usa hanno messo nel mirino in modo così deciso la Cina e soprattutto se i bandi imposti alle sue aziende e a Huawei in particolare non nascondono in realtà il timore di vedere nelle mani del “nemico” la supremazia tecnologica nel campo delle nuove reti mobili, in quella degli smartphone o in quello dell’intelligenza artificiale. Non è un mistero che la Cina voglia insidiare posizioni dominanti in alcuni mercati fino a ieri di esclusivo dominio americano ed è altrettanto noto come sia stata per prima la Cina ad erigere un muro sulle attività condotte in Rete, censurando i servizi non graditi per proteggere i dati dei suoi consumatori dalle tentacolari mani delle varie Facebook (WhatsApp), Amazon e Google e di conseguenza la crescita di colossi nazionali come Alibaba e Tencent. C’è chi parla di cortina di ferro che spacca in due il mondo tecnologico e forse non è una definizione eccessiva. Eppure Apple è diventata ultraricca sfruttando l’efficienza della supply cinese (bassi costi di manodopera compresi) dove produce i suoi iPhone e tanti vendor cinesi (Oppo, OnePlus, Xiaomi e naturalmente la stessa Huawei) hanno cavalcato il successo di Android per conquistare un posto al sole sui mercati occidentali.
Un passo indietro necessario. Il rischio che possa saltare tutto, relazioni diplomatiche e contratti commerciali, esiste perché rischia di venire meno il fil rouge che legava due mondi sotto il cappello del digitale. Huawei, per ovviare al taglio di Android, ha in pancia da anni un sistema operativo proprietario – ed è di queste ore la conferma a firma del numero uno della divisione consumer, Richard Yu, che questo software sarà pronto per il prossimo autunno – e nel motore dei suoi dispositivi utilizza chip fatti e prodotti in casa. Può fare a meno di Android, volendo. Ma tornerebbe a essere un’azienda molto cinese e meno globale. Lo stesso dicasi per Google e le altre tech company, che possono vendere i loro software e i loro componenti ad altri produttori più “affidabili”. Forse, però, è bene che i due mondi tornino a cooperare senza barriere e con più trasparenza. Abbattendo vecchi e nuovi muri. Chi farà il primo e decisivo passo indietro?