Roma. Ecco alcuni dei punti salienti delle consuete Considerazioni Finali del Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco presentata a Palazzo Kock la sorsa settima sulla situazione economica italiana del 2018. La congiuntura internazionale.Il sistema di istituzioni sovranazionali e di regole multilaterali che dal dopoguerra ha sostenuto l’integrazione e lo sviluppo economico mondiale è entrato in una fase di grave difficoltà. La tendenza all’apertura degli scambi, accentuatasi negli ultimi decenni, si è arrestata. La brusca frenata del commercio internazionale osservata nel corso del 2018 ha riflesso le tensioni connesse, in primo luogo, con la nuova strategia protezionistica perseguita dagli Stati Uniti. Il Fondo monetario internazionale prevede che la crescita globale si riduca quest’anno al 3,3 per cento, il valore più basso dalla contrazione del 2009. L’indebolimento è diffuso, interessa aree che rappresentano oltre il 70 per cento dell’economia mondiale. Le proiezioni prefigurano una ripresa dalla metà dell’anno, sostenuta dalle politiche economiche espansive nei principali paesi e dal conseguente miglioramento delle condizioni nei mercati finanziari. Restano però rilevanti i rischi, anche di natura geopolitica.
L’area Euro. Il rallentamento interessa soprattutto l’economia dell’area dell’euro, più aperta agli scambi internazionali rispetto a Stati Uniti e Giappone. La dipendenza dalla domanda estera è particolarmente elevata in Germania, la nazione più vulnerabile sotto questo profilo, ma anche in Francia, Italia e Spagna. Al deterioramento del quadro macroeconomico ha contribuito, nel secondo semestre del 2018, la flessione dell’attività nell’industria automobilistica. Le proiezioni di crescita per l’area dell’euro sono state progressivamente riviste al ribasso. Secondo le principali istituzioni internazionali l’espansione del prodotto sarebbe pari a poco più dell’1 per cento quest’anno e attorno all’1,5 nel 2020; non è trascurabile il rischio di un andamento meno favorevole.
La situazione italiana. In Italia il prodotto è leggermente diminuito nella seconda metà del 2018. Considerando l’intero anno la crescita è stata dello 0,9 per cento, poco più della metà di quella del 2017. Ne è risultato un brusco ridimensionamento dei piani di investimento delle imprese. Anche la spesa delle famiglie ha rallentato, riflettendo il deterioramento delle prospettive economiche e lo stallo dell’occupazione registrato dall’estate.
Contatti di lavoro. Nel settore privato è ripreso l’aumento dei contratti a tempo indeterminato, sospinto dalle trasformazioni di quelli a termine. Su queste ultime hanno influito nella seconda metà dell’anno le limitazioni introdotte dal “decreto dignità”. Insieme con il peggioramento del quadro congiunturale, i nuovi vincoli contribuiscono tuttavia a ridurre la probabilità di rimanere occupati allo scadere di un contratto a termine.
Gli effetti del reddito di cittadinanza sul Pil. Nelle valutazioni ufficiali l’introduzione del reddito di cittadinanza e le nuove misure in materia pensionistica porterebbero, senza considerare gli effetti restrittivi delle relative coperture, a un aumento del prodotto di circa 0,6 punti percentuali nel complesso del triennio 2019-2021. Nell’ipotesi di spesa integrale dei fondi stanziati, queste valutazioni sono condivisibili. Quelle relative agli effetti sull’occupazione, che sarebbe di mezzo punto percentuale più alta nel 2021, presentano invece ampi margini di incertezza.
L’incidenza del debito sul Pil.Come riconosciuto anche nel Documento di economia e finanza (DEF), il rallentamento congiunturale tende ad accrescere il disavanzo pubblico per l’anno in corso. L’aumento dell’incidenza del debito sul PIL potrebbe superare quello indicato nei programmi del Governo (pari a quasi mezzo punto percentuale), che scontano incassi da privatizzazioni per circa 18 miliardi (un punto percentuale del prodotto).
Punti di forza e di debolezza strutturale dell’economia italiana. Il nostro paese può fare affidamento su punti di forza in grado di sostenere l’attività in una congiuntura sfavorevole. Nel decennio in corso le esportazioni di beni hanno tenuto il passo della domanda estera, interrompendo la precedente lunga fase di calo della quota di mercato mondiale. Il saldo delle partite correnti è tornato positivo dal 2013 e l’avanzo si attesta ormai da tre anni intorno al 2,5 per cento del PIL; la posizione netta sull’estero è pressoché in pareggio. La capacità di competere sui mercati internazionali ha beneficiato della ricomposizione delle esportazioni verso produzioni meno esposte alle pressioni dei paesi emergenti e realizzate da imprese più efficienti e più grandi. Alla fine dello scorso anno l’indebitamento delle famiglie era pari al 41 per cento del PIL, contro il 61 dell’insieme degli altri paesi dell’area dell’euro; il valore del risparmio accumulato, per oltre il 60 per cento in immobili, superava 8 volte il reddito, a fronte di una stima di 7 per il resto dell’area. Anche il debito delle imprese è contenuto: la sua incidenza sul PIL era del 69 per cento, contro il 112 degli altri paesi. Nel complesso l’economia fatica però a riprendersi dalla doppia recessione. Il prodotto è ancora di oltre 4 punti percentuali inferiore ai valori del 2007, di 7 in termini pro capite. Il tasso di occupazione, pur risalito al livello del 59 per cento registrato in quell’anno, è inferiore di 9 punti alla media dell’area dell’euro. È aumentato il ritardo di sviluppo del Mezzogiorno, dove la disoccupazione supera il 18 per cento delle forze di lavoro, contro il 7 nel Centro Nord; il divario è 4 punti più alto che nel 2007.
La bomba demografica. L’Italia invecchia rapidamente e la popolazione tende a ridursi; sono caratteristiche comuni a molti paesi dell’Unione europea, più marcate da noi. Nello scenario mediano delle previsioni pubblicate dall’Eurostat nei prossimi 25 anni la quota della popolazione con almeno 65 anni raggiungerà il 28 per cento nel complesso dell’Unione, il 33 in Italia; cresceranno di conseguenza le pressioni finanziarie sui sistemi pensionistici e di assistenza. La popolazione di età compresa tra i 20 e i 64 anni diminuirà di 6 milioni nel nostro paese, nonostante l’ipotesi di un afflusso netto dall’estero di 4 milioni di persone in questa classe di età. La riduzione della capacità produttiva connessa con gli andamenti demografici va contrastata con aumenti decisi nella partecipazione al lavoro e nella produttività. Pur salito negli ultimi venti anni dal 61 al 66 per cento, il tasso di partecipazione al lavoro è oggi ancora inferiore di 8 punti percentuali alla media europea. Come negli altri paesi, l’aumento ha riguardato soprattutto i lavoratori più anziani, in connessione con le modifiche apportate al sistema pensionistico. Anche la partecipazione femminile è aumentata, dal 47 al 56 per cento. L’incremento è tuttavia inferiore a quello registrato nel resto dell’Unione europea e il tasso di attività degli uomini è ancora superiore di 19 punti a quello delle donne, uno dei divari più elevati in Europa. Esso indica la presenza di una grande potenzialità di aumento della partecipazione al lavoro e mette in luce la necessità di individuare e introdurre con decisione misure, servizi e incentivi volti ad accrescere l’occupazione femminile. L’immigrazione può dare un contributo alla capacità produttiva del Paese, ma vanno affrontate le difficoltà che incontriamo nell’attirare lavoratori a elevata qualificazione così come nell’integrazione e nella formazione di chi proviene da altri paesi.
Se alziamo lo sguardo oltre l’orizzonte della congiuntura non possiamo ignorare il rischio, implicito nelle tendenze demografiche, di un netto indebolimento della capacità produttiva del Paese e la prospettiva di una forte pressione sulle finanze pubbliche. Da qui al 2030, senza il contributo dell’immigrazione, la popolazione di età compresa tra i 20 e i 64 anni diminuirebbe di 3 milioni e mezzo, calerebbe di ulteriori 7 nei successivi quindici anni. Oggi, per ogni 100 persone in questa classe di età ce ne sono 38 con almeno 65 anni; tra venticinque anni ce ne sarebbero 76. Queste prospettive sono rese più preoccupanti dall’incapacità del Paese di attirare forze di lavoro qualificate dall’estero e dal rischio concreto di continuare anzi a perdere le nostre risorse più qualificate e dinamiche.
La fuga dei giovani laureati. La produttività e la capacità imprenditoriale risentono inoltre negativamente del progressivo aumento delle quote di giovani e di laureati che ogni anno lasciano l’Italia, riflesso dei ritardi strutturali dell’economia: l’emigrazione dei giovani ha raggiunto lo 0,5 per cento nel 2017, quintuplicandosi nell’arco di dieci anni; quella dei laureati, pari allo 0,4 per cento, è raddoppiata.
Investire in tecnologia.L’Italia ha risposto con ritardo alla rivoluzione tecnologica ne ha risentito marcatamente la crescita economica. Ai settori che compongono l’economia digitale è oggi riconducibile il 5 per cento del totale del valore aggiunto, contro circa l’8 in Germania e una media del 6,6 nell’Unione europea. Dall’avvio della crisi dei debiti sovrani il peso di questi settori da noi si è ridotto, in controtendenza rispetto alla media europea. Il divario rispetto al resto dell’Unione riguarda quasi tutte le finalità per cui le imprese possono adottare tecnologie innovative; il ritardo nell’automazione della produzione è marcato rispetto ai paesi con una specializzazione settoriale simile alla nostra, come la Germania. Lo sviluppo delle reti di telecomunicazione di nuova generazione resta limitato. Il ruolo di traino svolto dall’amministrazione pubblica nell’introduzione delle nuove tecnologie è contenuto: l’indice di sviluppo dei servizi pubblici digitali elaborato dalla Commissione europea pone l’Italia al 19° posto nell’Unione.
.Il gap di competenze digitali. Il limitato investimento nell’innovazione si accompagna a un livello di conoscenze e competenze di studenti e adulti italiani anch’esso basso nel confronto internazionale; si tratta di ritardi che si influenzano reciprocamente, in un circolo vizioso che va invertito. Investimenti in formazione che abbraccino l’intera vita lavorativa sono necessari anche per evitare il rischio che con la diffusione delle nuove tecnologie, e con la conseguente minore domanda di lavoro per le attività che più risentono dell’affermarsi dell’automazione e della digitalizzazione, aumentino le disuguaglianze di reddito e di opportunità e si riduca l’occupazione.