Dopo diverse incomprensioni, a Palazzo Chigi è il momento della verità nei rapporti tra il premier Mario Draghi e il leader della Lega Matteo Salvini. Il faccia a faccia dei giorni scorsi, e la riunione di preconsiglio di lunedì, autorizzavano Draghi a dare per chiuso il testo del decreto riaperture. Ivi compresi i due punti su cui a sorpresa la Lega ha alzato l’asticella delle richieste: il coprifuoco alle 23, e non alle 22. E la riapertura dei ristoranti al chiuso il 15 maggio, invece che il 1 giugno. Così ieri nella riunione di governo che ha preceduto il consiglio dei ministri, quando i rappresentanti della Lega hanno aperto il dossier, Draghi ha posto un fermo diniego: “Non riesco a capire come si possano rimettere sempre in discussione decisioni prese insieme”, ha detto chiudendo ogni spazio a modifiche del testo. Spazio che invece il premier ha accordato, ad esempio, per portare la percentuale minima di presenza alle superiori nelle zone gialle e arancioni dal 60 al 70 per cento, come chiedeva il Pd.
In realtà Draghi e Salvini si erano parlati. E il premier sapeva che i ministri della Lega, se il testo non fosse cambiato, non l’avrebbero votato in cdm. Ciononostante ha scelto la linea della fermezza. Nella maggioranza Pd e Cinque Stelle fanno quadrato attorno al premier. Ma anche Forza Italia, con la ministra Maria Stella Gelmini, pur ammettendo che il decreto è migliorabile, si dichiara “soddisfatta” da una road map di riaperture intelligenti e in sicurezza. Un giudizio molto diverso da quello tranchant di Salvini secondo il quale il decreto è invotabile. Fonti di maggioranza ascrivibili al centrosinistra rimarcano il silenzio di Giancarlo Giorgetti, che non si sarebbe speso per la linea salviniana. “Una scena muta, evidentemente è stanco del suo ventriloquo”, dicono di Giorgetti con una punta di malizia. In ambienti parlamentari la spiegazione dell’incidente di percorso la si rintraccia nei numeri. Che giocano a favore del premier e contro il leader del Carroccio. Sia alla Camera che al Senato, infatti, la Lega non è necessaria a tenere in piedi la maggioranza.
I numeri
A Montecitorio Lega e Fdi arrivano a 167 deputati. E se anche si aggiungessero altri 50 deputati contrari al governo, cifra considerata per eccesso, un’eventuale opposizione di centrodestra a Draghi si fermerebbe più di 100 voti prima della maggioranza assoluta di 316. Al Senato, gli equilibri sono più o meno gli stessi. Fdi e Lega raggiungono 84 senatori. Anche considerando altri 20 senatori in dissenso negli altri gruppi (calcolo in eccesso anche in questo caso) gli oppositori di Draghi sarebbero poco più di 100. Sessanta in meno della maggioranza assoluta dell’emiciclo.
Sta in queste cifre, spiegano fonti di maggioranza, la decisione di Draghi di non assecondare l’atteggiamento da campagna elettorale di Salvini. E il momento scelto per lo strappo non è casuale: dal 3 agosto si entra in semestre bianco, le Camere non potrebbero essere sciolte, ‘l’irresponsabilità’ di chi insegue le tensioni aumenterebbe tanto più che ci si avvicina alle elezioni amministrative di ottobre. Meglio chiarirsi ora, dunque.
Ma non è solo questo. Un voto di fiducia sul governo Draghi potrebbe portare alla spaccatura del centrodestra, con Forza Italia che non segue Salvini. Ed anche nella Lega, si aprirebbe apertamente una dialettica tra governisti e salviniani. Per il leader della Lega è un rischio concreto in vista delle prossime politiche. Anche per questo, qualcuno fa notare, Salvini chiamando Draghi prima del consiglio dei ministri per prima cosa si è premurato di confermargli la fiducia.