Da qualche settimana l’Italia è messa sotto scacco dal maltempo. Dall’acqua alta record di Venezia alle frane liguri di questi giorni, passando per le esondazioni dei fiumi emiliani e le valanghe trentine, sono ormai più di quattordici giorni che da nord a sud arrivano segnalazioni di emergenze causate dall’ondata di maltempo o conseguenti quest’ultima. Non è la prima volta che la penisola italiana si trova a vivere una situazione del genere e, purtroppo, non sarà nemmeno l’ultima. Infatti, con l’arrivo delle prime piogge autunnali puntualmente inizia la conta dei danni e delle tragedie sfiorate, regolarmente seguite da una scia polemiche sul tema della messa in sicurezza dei cittadini e delle infrastrutture dello stato dal dissesto idrogeologico. Questione quest’ultima strettamente legata al tema della prevenzione, argomento a sua volta complesso, delicato e trattato spesso senza la dovuta profondità. Tali argomenti rimangono in primo piano fin quando restano centrali nella cronaca nazionale, una volta spostato l’occhio dei media si lascia al Governo di turno il compito di trovare soluzioni spesso momentanee o di breve periodo.
Tante polemiche, poche soluzioni. Il dibattito tra forze politiche sulla protezione dei cittadini si è focalizzato più su attività di tipo antropico. La discussione in merito alla messa in sicurezza delle persone e delle strutture dagli eventi naturali rimane saltuaria e spasmodica. Naturalmente, la questione non riguarda solo il dissesto idrogeologico, ma anche i pericoli connessi agli eventi sismici e quelli di tipo vulcanico. Rimanendo però sugli eventi di natura idrogeologica, la discussione torna centrale solo nel momento di un evento straordinario. Il copione è sempre lo stesso: arrivano le perturbazioni autunnali, vengono emanate le allerte meteo, comincia la conta dei danni e ripartono le polemiche; sperando che non avvengano catastrofi nel mentre, come il crollo del viadotto della A6 tra Savona e Torino ha rimarcato i questi giorni. Il problema principale riguarda le azioni necessarie per la messa in sicurezza dei territori. Quotidianamente emergono casi di manutenzioni delle strutture non effettuate o la realizzazione di strutture specifiche mai realizzate o solo parzialmente completate. La vicenda del Mose di Venezia è l’emblema delle conseguenze, specialmente economiche, della mancata prevenzione in Italia. L’acqua alta che ha colpito l’ex repubblica marinara ha prodotto, secondo quanto stimato dal sindaco Brugnaro in una intervista a “Il Messaggero”, danni per almeno un miliardo di euro. In questo contesto fa ancor più rumore l’inattività del Mose, progetto avviato nel 2003, per il quale sono stati investiti oltre 7 miliardi di euro. Il modulo veneziano probabilmente non avrebbe risolto tutte le criticità connesse all’acqua alta di queste settimane, ma avrebbe potuto limitare notevolmente i danni economici causati da quest’ultima.
I Dati del dissesto idrogeologico. Ad evidenziare ancor di più la pericolosità del dissesto idrogeologico sono i dati forniti dal rapporto dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) del 2018. Dalla lettura del report si evince come siano sei le regioni, più la provincia di Trento, con le aree più estese del territorio a rischio frana; in particolare, la Valle D’Aosta presenta l’area più estesa compresa tra le classi di maggiore pericolosità, risultante in quasi l’80% del totale. Inoltre, viene evidenziato un incremento dell’1,5%, rispetto ai dati del 2015, delle aree ad elevato rischio frana. Il rapporto indica come l’aumento sia dovuto ad attività antropiche, spesso di stampo edile, ed è impietoso e allarmante sui dati relativi ai comuni e alle famiglie italiane nelle aree di rischio.
Per ciò che concerne i centri abitati, il report specifica “I comuni interessati da aree a pericolosità da frana elevata P3 e molto elevata P4 e/o pericolosità idraulica media P2 sono 7.275 pari all’91,1% dei comuni italiani: di questi 1.602 hanno nel loro territorio solo aree a pericolosità da frana P3 e P4, […] mentre 3.934 hanno nel loro territorio sia aree a pericolosità da frana P3 e P4 che aree a pericolosità idraulica P2”; per quanto riguarda il nuclei famigliari il rapporto specifica “Le famiglie a rischio frane in Italia sono 210.452 in aree a pericolosità molto elevata, 327.582 in aree a pericolosità elevata, 711.965 in aree a pericolosità media, 942.992 in aree a pericolosità moderata e 191.372 in aree di attenzione. Le famiglie a rischio in aree a pericolosità da frana P3 e P4 sono pertanto 538.034 pari al 2,2% del totale (24.611.766 famiglie). Le regioni con numero più elevato di famiglie a rischio frane in aree P3 e P4 sono Campania, Toscana, Liguria ed Emilia-Romagna, mentre i valori più elevati di percentuale rispetto al totale regionale si registrano in Valle d’Aosta, Molise, Basilicata, Liguria e Abruzzo”. Questi dati risaltano ancor di più come il problema del dissesto idrogeologico sia elevato in termini di rischio ed esteso su tutto il territorio nazionale, evidenziando allo stesso tempo come la questione meriti un impegno maggiore da parte delle forze politiche.
Inoltre, è necessario un maggior coordinamento tra lo stato centrale e gli enti locali, volto a ridurre quello scollegamento che specialmente nel momento dell’emergenza contribuisce a rallentare la capacità di risposta dello Stato. Le parole di questi giorni del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, vanno in questa direzione: “Ancora una volta si conferma il fatto che dobbiamo fare squadra, non solo fra le forze di maggioranza. L’obiettivo è comune: agire in modo articolato per contrastare i rischi idrogeologici. Più agiremo sulla manutenzione e la prevenzione più eviteremo rischi alla popolazione”. Non basta, però, la buona volontà, è necessario un’azione celere e collettiva da parte della politica. Il dissesto idrogeologico rappresenta un problema per la sicurezza italiana: più tempo passa senza soluzioni efficaci, maggiori saranno i rischi che correranno i cittadini.