Nella notte tra domenica e lunedì, circa venti minuti dopo la mezzanotte, è stata lanciata la European Super League: una competizione a numero semi chiuso con quindici squadre fondatrici fisse e cinque a giro, secondo parametri mai specificati né accennati. A aderire all’iniziativa c’erano dodici club europei: sei inglesi (Chelsea, Arsenal, Manchester United, Manchester City, Liverpool e Tottenham), tre spagnoli (Real Madrid, Barcellona e Atletico di Madrid) e tre italiani (Juventus, Milan e Inter). A capo della Superlega c’erano Florentino Perez, Presidente del Real Madrid e della nuova manifestazione sportiva, e Andrea Agnelli, Presidente della Juve e vicepresidente del nuovo format sportivo. L’annuncio ha naturalmente scatenato la dura reazione dei vertici della UEFA e della FIFA (rispettivamente Aleksander Ceferin e Gianni Infantino), nonché delle federazioni calcistiche nazionali di tutta Europa. Non solo: lo sdegno ha fatto esplodere l’ira dei tifosi, in particolare di quelli inglesi, arrivando a coinvolgere persino i massimi vertici politici statali ed europei. Ma andiamo con ordine.
Prima di procedere ad una analisi dello scontro avvenuto tra i vertici del sistema calcistico e i club europei, è necessario evidenziare il ragionamento economico della Superlega. L’ispirazione è stata quella di creare una competizione in stile americano, che potesse far aumentare notevolmente l’introito economico per le società partecipanti. Tanto per fare un esempio: la NFL e la Major League americana, che hanno un bacino di appassionati estremamente inferiore a quella calcistica, fatturano a livello televisivo oltre il doppio di quello prodotto dall’attuale Champions League, che produce un introito di 3,2 miliardi. Il ragionamento dei “12 club ribelli” era quello di aumentare le sfide tra le squadre europee di maggior blasone, creando un torneo semichiuso con quindici squadre fondatrici fisse, sicure della loro permanenza e cinque scelte per “meriti sportivi”, in modo da aumentare notevolmente i ricavi (si stimavano dieci miliardi di euro sul medio periodo). A finanziare il tutto la banca d’investimenti americana Jp Morgan, mettendo a disposizione 3,5 miliardi per l’avvio della competizione.
A spingere le società calcistiche verso questa soluzione, per certi versi repentina e portata avanti nell’ombra, è stata la pandemia, la quale ha praticamente distrutto il giro d’affari e i ricavi ottenuti, complicando la vita finanziaria dei 12 ribelli molti dei quali già pesantemente indebitati. In breve, una competizione d’élite a numero semichiuso finalizzato a ristabilire e aumentare i guadagni dei club più forti d’Europa. Non tutti hanno aderito: il Bayern di Monaco, il Borussia Dortmund e il PSG si sono da subito detti contrari ad una tale soluzione, con una certa risolutezza da parte dei club tedeschi. L’annuncio, inoltre, ha scatenato, come detto, la dura reazione della UEFA, della FIFA e delle federazioni nazionali, che hanno minacciato l’esclusione dei club dai campionati nazionali e dei giocatori dalle competizioni internazionali, come l’europeo e il mondiale. Tuttavia, a insorgere sono stati i tifosi, che hanno visto in questa mossa la volontà di rendere il calcio una questione d’élite che mal si sposa con i valori di questo sport amato da oltre tre miliardi e mezzo di persone. In particolar modo, mentre in Spagna e in Italia (tolti gli organi di stampa fortemente contrari, come la Gazzetta dello Sport) le posizioni sono state più variegate, i sostenitori dei team inglesi si sono rivoltati contro i loro stessi club con manifestazioni pacifiche davanti agli stadi e l’assalto alle pagine social delle stesse società.
Il salto dal popolo alla politica è stato breve. Il primo a condannare pesantemente l’iniziativa è stato il Primo ministro britannico, Boris Johnson, che ha minacciato pesanti ripercussioni alle dirigenze delle squadre inglesi, seguito a stretto giro dal Presidente francese, Emmanuel Macron, che ha persino annunciato di voler portare una direttiva specifica sul tema al Consiglio Europeo. Da loro il coro di disapprovazione si è alzato da tutta la politica europea al grido che il calcio è “meritocrazia” e rappresentante della “possibilità per Davide di battere Golia”. La questione della Superlega, che addirittura ha rubato le prime pagine al Covid-19 per qualche giorno, ha prodotto un pressing politico-istituzionale e sociale così forte che nella serata di martedì ha spinto diversi club ad abbandonare la neonata competizione. Anzitutto, tutte le squadre inglesi, alcune delle quali si sono addirittura scusate con i propri tifosi, con tutta probabilità il Barcellona, che chiederà un voto dei soci in merito, seguito dall’Atletico di Madrid e, infine, l’Inter, che attraverso un comunicato ha specificato il venir meno del suo interessamento alla partecipazione alla Superlega.
Dunque, in meno di 48 ore il faraonico progetto di Perez e Agnelli sembra già essere fallito, per quanto quest’ultimo dica che il progetto è ancora in piedi. Anzi, il numero uno della Juventus ha dichiarato che “fra i nostri club c’è un patto di sangue, il progetto della Super League ha il 100% di possibilità di successo. Vogliamo creare la competizione più bella al mondo, capace di portare benefici all’intera piramide del calcio, aumentando la distribuzione delle risorse agli altri club e rimanendo aperta con cinque posti disponibili ogni anno per gli altri, da definire attraverso il dialogo con le istituzioni del calcio”.
Ora, che la Superlega avrebbe portato benefici a tutta la piramide del calcio sostituendosi alla Champions League è una affermazione palesemente poco veritiera. I ricavi sarebbero andati solo ed esclusivamente alla punta di questa piramide calcistica, con i grandi club che avrebbero poi distribuito a mo’ di elemosina i guadagni alle società medio-piccole. In breve, i club più ricchi sarebbero diventati ancor più ricchi, aumentando notevolmente il divario già esistente con società economicamente meno forti. Tuttavia, va anche detto che la guerra tra bene e male descritta tra gli organi di stampa in questi giorni non è mai esistita. È vero che la Superlega è un progetto nato e progettato male, anzi malissimo, ma è altrettanto vero che il modello calcistico attuale delineato dalla UEFA e dalla FIFA non funziona e necessita di una riforma. Infatti, per quanto i club ribelli abbiano portato avanti una iniziativa sbagliata, va anche detto che negli ultimi anni molte sono le ombre che si sono cumulate attorno ai massimi vertici del calcio europeo e internazionale, in particolar modo con la dubbia assegnazione del mondiale del 2022 al Qatar e le costanti violazioni operate dal Paese per la sua organizzazione.
La creazione di un torneo riservato a pochi club ricchi sembra essere stata sventata, ma la possibilità che episodi simili si possano ripetere in futuro assolutamente no. Dopo questo terremoto sportivo la UEFA e la FIFA, oltre che le federazioni nazionali, dovranno impegnarsi in una profonda riforma del sistema che porti a ridurre realmente le diseguaglianze tra i club e aumenti la competizione in quello che è sempre di più lo sport più amato al mondo.