Una recente ricerca Istat ha messo in luce che non solo l’Italia produce pochi laureati (19% contro il 33% della media europea), ma anche che questi “pochi” hanno più difficoltà a trovare lavoro rispetto ai loro colleghi europei. Del resto, quest’ultima circostanza aiuta a comprendere anche il motivo per cui abbiamo pochi laureati: perché fare l’università, se poi non trovo lavoro?
Molti ragazzi iscritti all’università non arrivano alla laurea: il tasso di abbandono durante il percorso è di circa 1/3, un dato assai emblematico. L’età media del neolaureato italiano è poi un grave problema in termini di occupabilità: quasi 25 anni per il laureato di primo livello, mentre l’età media del laureato magistrale è di 27 anni.
Le aziende invece fanno a gara per attrarre laureati di 22, massimo 23 anni. Sono questi quelli che loro definirebbero “giovani”. Ciò significa che a 25 anni un laureato è già in età “border-line”, e che farà molta più fatica a trovare un’occupazione remunerata, anche perché nella maggior parte dei casi non ha mai lavorato prima. Ecco, questo è un altro problema endemico: il ragazzo italiano di norma tiene separate le due fasi della vita, prima studia e poi lavora, o meglio, inizia a cercare lavoro solo dopo aver terminato l’intero ciclo di studi. Invece in tanti altri paesi è diffusa l’abitudine di lavorare durante gli studi, tanto che nei paesi anglofoni è assolutamente normale che un giovane laureato abbia già maturato esperienze di lavoro. E va benissimo anche aver fatto il cameriere, il barman, l’animatore turistico, sono attività molto formative in vista del futuro impiego per tante ragioni.
Smarriti dopo la laurea. Questo contribuisce a spiegare anche perchè una volta conseguito l’agognato diploma di laurea, molti di questi ragazzi si sentono smarriti, senza la minima idea su quale lavoro possano fare e, spesso, su cosa il lavoro sia. Così, in assenza di un obiettivo chiaro, la ricerca di un primo impiego si traduce in tentativi vari e disarticolati (invio di curricula, concorsi, pratica professionale, ricerca di raccomandazioni) in attesa che “prima o poi esca fuori qualcosa”, mentre il tempo passa e ci si avvicina sempre di più ai trent’anni senza aver acquisito una professionalità, ossia una posizione socio-lavorativa definita e neppure, ovviamente, un guadagno dignitoso. Del resto, la remunerazione è il corrispettivo di una prestazione professionale: se quest’ultima non è tale o non è adeguata, nemmeno il corrispettivo lo sarà. E’ una legge di mercato.
Eppure le opportunità per i giovani laureati ci sono. Anzi, forse non sono mai state così tante. Il problema è che sono difficili da “vedere”, fin quando si abita il mondo dell’università. Soltanto dopo la laurea, dalla necessità di trovare un impiego, inizia un processo autonomo di scoperta, che tuttavia può durare anni senza portare a risultati soddisfacenti.
In Italia le aziende private impiegano due terzi dell’intera popolazione di lavoratori: di circa 22 milioni di lavoratori, 14 milioni sono impiegati nel mondo delle imprese (contro soli 3,5 milioni del settore pubblico. La fetta rimanente di 4 milioni e mezzo è occupata da professionisti, artigiani e imprese individuali)
Il mondo delle imprese riveste dunque un’importanza capitale per le sorti dell’occupazione in Italia, inclusa quella giovanile. Così come è vero l’inverso: il lavoro dei giovani è fondamentale per il successo delle imprese italiane. Allora sarebbe opportuno ascoltare e recepire concretamente le esigenze di talent acquisition delle aziende.
Oggi, in quella che è stata definita “l’epoca del cambiamento”, dove tutto scorre rapido come mai in passato, la prima necessità che ciascuna organizzazione aziendale ha è quella di competere in un mondo incredibilmente dinamico. Di gestire cioè continuamente nuovi problemi, individuando nuove soluzioni. Spesso il vantaggio competitivo di un’impresa nasce recependo il nuovo prima degli altri, attraverso cioè l’innovazione. Molte aziende invece sono indietro con il processo di digitalizzazione e ne soffrono le conseguenze in termini di business. Gestione del cambiamento, creatività, innovazione, digitalizzazione: sono le skill dei giovani. Ecco perché le aziende li cercano. Spesso senza trovarli, per le ragioni di cui sopra. Insomma, un sistema paradossale, che penalizza le aziende (le quali non trovano quello per cui sono disposte a pagare) ed i laureati (che fanno fatica a trovare un lavoro remunerato).
Proviamo a sintetizzare: le aziende cercano laureati di 22-23 anni; in Italia abbiamo pochi laureati; quei pochi si laureano a 25-27 anni in media (a seconda che sia laurea triennale o magistrale); il neolaureato italiano di norma ha solo studiato, senza aver mai lavorato. Dunque, quale potrebbe essere una soluzione sensata per generare occupazione per i nostri neolaureati, migliorando al contempo la competitività delle nostre imprese?
Una proposta di riforma dell’università. Ridurre a due anni la laurea breve, più un anno per conseguire l’eventuale laurea magistrale: per un totale di tre anni per ottenere la laurea “magistrale”. Inserire lo stage (in azienda, in un ente, in uno studio professionale) all’interno del percorso di studi universitario, per far sviluppare ai ragazzi esperienza ed abilità richieste del mercato del lavoro. Per chi volesse acquisire una preparazione post laurea e puntare alla carriera manageriale, ci sono i master.
Una soluzione di questo tipo è in grado di soddisfare le reali esigenze di mercato ed offre evidenti vantaggi: neolaureati più giovani e più “abili”. L’università durerebbe meno e riacquisterebbe un “senso” in termini di occupabilità, quindi minore tasso di abbandono degli studenti e, nel medio-lungo termine, una maggiore attrattività della laurea si tradurrebbe facilmente in aumento del numero di laureati. Infine, vale la pena osservare come una qualunque riforma del mondo universitario che abbia realmente a cuore il futuro dei nostri giovani e delle nostre aziende, dovrebbe prevedere un servizio – preventivo – di orientamento professionale nelle scuole superiori, con l’obiettivo di garantire che la scelta dell’università o della facoltà sia coerente con gli obiettivi professionali prefissati. E, prima ancora, bisogna aiutare i ragazzi delle scuole superiori a stabilire un chiaro obiettivo professionale. Bisogna cioè scongiurare che un sistema universitario efficiente ed orientato al mercato reale del lavoro venga reso inficiato ab origine dalla mancanza di focus dei ragazzi che intraprendono il percorso di laurea, ritrovandosi a studiare senza la giusta consapevolezza dell’obiettivo professionale che persegue, che varrebbe a dire tornare alla situazione attuale.
I ragazzi con le loro famiglie sono lasciati soli nella scelta dell’università, della facoltà, del futuro. I genitori inoltre sul tema del lavoro possono essere loro malgrado dei cattivi consiglieri, per quanto siano nel contempo dei consiglieri amorevoli e premurosi. I genitori sono indotti in errore dal forte gap generazionale: il il mondo del lavoro di oggi è molto cambiato da quello del loro tempo; così come sono cambiate le professioni: molte delle quali sono del tutto nuove, molte altre sono sparite o stanno scomparendo, mentre molte di quelle che sono rimaste non sono più come prima. E questo processo di cambiamento in futuro sarà ancora più rapido e dirompente. Vien da sé che non si può dare consigli sulla professione ai ragazzi di oggi, utilizzando criteri validi 20-30-40 anni fa, è sbagliato e dannoso. Lasciamo che i ragazzi vengano aiutati da consulenti esperti ed aggiornati. Come già ho detto in precedenza, selezionatori professionisti e consulenti di carriera sono le figure più idonee, che oggi il nostro sistema non sta utilizzando a dovere, essendosi preferita la soluzione del navigator, con le conseguenze che conosciamo.