C’è un quartiere a Milano che conserva ancora la bellezza delle piccole cose: la bottega del calzolaio, il fioraio, il barbiere, quella piccola cartolibreria che profuma di penne Replay: quelle cancellabili con cui vorrei fosse scritto questo periodo che ha messo il bavaglio alla nostra libertà. La Chiesa di Piazza Dergano è chiusa e con lei si dimenticano le voci dei bambini in oratorio, sostituite da qualche bisbiglio dei passanti, silenziosi come fedeli raccolti in preghiera.
C’è un quartiere a Milano che si sforza di ricominciare ma si imbatte nella paura della gente che svuota le strade a quella soffiata di peggioramento sui contagi del virus “Reale” che, sabato sera, ha delineato i confini con un pennarello rosso. Uno scarabocchio di un’istante nella mente. È panico, confusione “Hai sentito? Hanno chiuso la regione…l’ultimo treno è domattina, prova a partire”. La prima sensazione è di claustrofobia, alimentata da quelle scene di panico che all’una di notte vengono trasmesse in tv. Le telefonate di preoccupazione della tua famiglia e quell’istinto che provi a controllare mentre seduta sul divano ti abbandoni all’angoscia di quel che sarà.
Quell’istante non è razionale, diventi un’animale che vorrebbe solo mettersi in salvo e riabbracciare i propri cari. Si azzera il contorno, è buio. Poi l’occhio ti cade su quella foto di famiglia che hai sul comodino, un nodo stretto in gola come i lacci delle scarpe che sciogli e butti via. Squilla il telefono ed è ancora la mamma che vuole sapere come ti senti e cosa hai deciso, con voce serena la mandi a dormire dicendole che non ti muovo da lì. Ma intanto ti giri nel letto e non riesci a dormire. Diventi piccola davanti all’ipocondria, come Judy Abbot davanti a quell’ombra gigante in “Daddy Long Legs”, quando ti interroghi su cosa potrebbe succedere se un soggetto asmatico come te contraesse il Covid-19. Come l’affronteresti da sola, in una città che non conosci, senza la mamma che sa a memoria il tuo quadro clinico?! In tutte queste paranoie ti abbandoni al bisogno di sentirti semplicemente una figlia, mettendo all’angolo la “donna manager”.
Oltre l’egoismo c’è l’amore. Ma poi è semplice, nella testa scatta una molla come un sistema di difesa che attivi a protezione delle persone che ami di più. Perché mettere a rischio la salute dei nonni? Dei famigliari più fragili? Perché mettere in quarantena tuo padre che è un artigiano e che avrà già da leccarsi le ferite dopo la violenza economica che ci lascerà questo Coronavirus, perché mettere in pericolo tua madre dalla salute cagionevole o tua sorella che dovrebbe realizzare il sogno di laurearsi tra 10 giorni? C’è una forma di egoismo che va ben oltre il partire e mettere a repentaglio la vita di decine e decine di persone, ed è l’amore. Amore tuo, che ti appartiene e che tieni stretto ad ogni costo, che proteggi sopra ad ogni cosa, che metti al primo posto, prima di te.
Potevo partire, ma ho scelto di restare e l’ho fatto per senso del dovere, per responsabilità sociale e per amore…verso gli altri! Non ho fatto niente di straordinario, ho fatto solo ciò che andava fatto e ora abbiamo il dovere di restare uniti e soprattutto di limitare i contagi restando a casa: a fare un dolce, a giocare a carte o magari a suonare una chitarra come in quelle notti d’estate sulla spiaggia, quando con il sale sulla pelle aspetti un nuovo giorno che verrà.