Una partita lunga, difficile e con continui colpi di scena. Una trattativa che sembrava portare l’Unione Europea sull’orlo del tracollo, ma che, apparentemente, sembra averla rafforzata. In questi giorni successivi all’accordo si è parlato molto di vincitori e vinti, ma propriamente a livello di Stati membri tutti portano a casa buoni risultati. Semmai la storica intesa segna, ancora una volta, la prevalenza dell’Europa in formato interstatale su quella comune. In ogni caso, per meglio comprendere il Recovery Fund, è necessario analizzare il suo contenuto.
I piani di riforma e il freno d’emergenza. Concretamente il contenuto finanziario del fondo sarà disponibile dal secondo trimestre del 2021. Tuttavia, questo potrà essere utilizzato per finanziare progetti avviati già dal febbraio 2020. Gli Stati membri in ogni caso dovranno presentare uno specifico piano nazionale di riforme, nel quale dovranno figurare misure specifiche: interventi per la green economy, trasformazione digitale e provvedimenti strutturali in materia di lavoro, pubblica amministrazione, giustizia, pensioni, sanità e istruzione in base alle raccomandazioni, che sono fonti di diritto UE prive di efficacia vincolante, delineate dalla Commissione per il biennio 2019-2020. Una volta presentato il piano di riforme, quest’ultimo sarà approvato o meno dalla Commissione e dal Consiglio, che voterà a maggioranza qualificata. Qui arriva uno dei punti voluti e ottenuti dai cosiddetti “Paesi frugali”: il super freno di emergenza. In vero, questo strumento già esisteva ed esiste nel diritto europeo, in particolare in materie di sicurezza sociale dei lavori e di cooperazione giudiziaria in materia penale. Il freno di emergenza “rafforzato” voluto per l’accordo sul Recovery Fund prevede che un comitato economico e finanziario, composto dai collaboratori dei ministri dell’Ecofin (formato del Consiglio composto dai soli ministri dell’economia), andrà a valutare il raggiungimento degli obiettivi intermedi in base a quanto delineato dai piani di riforma; qualora fossero ravvisate grosse incongruenze o problematiche di altro tipo, la discussione della questione passerà nuovamente al Consiglio che valuterà una soluzione in merito.
I numeri e il debito comune. Veniamo al dettaglio economico del Recovery Fund. L’inziale proposta della Commissione europea prevedeva 750 miliardi, di cui 500 di finanziamento a fondo perduto e 250 di prestiti con tassi vicini allo zero. L’accordo definitivo non prevede modifiche alla cifra stanziata, ma una rimodulazione della sua ripartizione: i sussidi sono calati a 390 miliardi mentre i prestiti sono saliti a 360 miliardi. L’accordo raggiunto sul fondo è certamente storico dato che la prima volta gli Stati membri hanno autorizzato la Commissione europea ad indebitarsi a loro nome per una notevole somma. Naturalmente, questo debito in comune porterà sicuramente gli Stati membri ad istituire nuove tasse europee per il suo rimborso. Infine, il bilancio settennale (2021-2027) è stato portato da 1.074 a 1.082 miliardi di euro. Il fondo elargirà le risorse tra il 2021 e il 2023, rimanendo attivo fino al 2026. Il rimborso dei prestiti partirà dal 2027 e per quel periodo gli Stati membri dovranno trovare un accordo per garantire al bilancio dell’Unione nuove risorse proprie.
La fetta italiana. Certamente, per lo Stato italiano l’accordo rappresenta un notevole risultato. Infatti, l’Italia è il Paese che più usufruirà di questi finanziamenti europei di portata storica. Una volta presentati il piano nazionale, saranno messi a disposizione del “Bel Paese” ben 81,4 miliardi di sussidi e 127,4 di prestiti. Il governo italiano ha ottenuto quello che voleva in cambio di una supervisione del Consiglio e della Commissione con il già citato “freno di emergenza”. Non è difficile immaginare le ragioni dietro queste condizioni. Alcuni partner europei hanno poca fiducia nella capacità italiana di utilizzare le risorse senza disperderle, mentre un’altra parte teme, nel caso di elezioni anticipate, possa nascere un governo euroscettico con idee deviate in merito all’utilizzo dei finanziamenti.
La vittoria dei “frugali” e del debito comune. L’Italia non è la sola ad averci guadagnato. Anche i piccoli Paesi del fronte del nord, decantati da diverse testate come gli sconfitti della trattativa, possono gioire dei risultati ottenuti. Anzitutto, sono riusciti ad imporre un taglio dei prestiti a fondo perduto inizialmente proposti dalla Commissione e, in generale, la riduzione dei fondi complessivi. Inoltre, sono riusciti ad ottenere un aumento dei cosiddetti “rebates”, cioè la riduzione dei fondi nazionali che dovranno versare al bilancio comunitario nei prossimi sette anni, i quali andranno inevitabilmente ad aumentare la quota di tutti gli altri. Dall’altra parte, però, vince anche l’idea che si possa emettere debito comune europeo. Una cosa impensabile ad inizio anno e resa possibile grazie all’asse franco-tedesco e, in particolare, alle capacità politico-diplomatiche della Cancelliera tedesca, Angela Merkel.
Chi Perde. Forse la vera sconfitta di questo storico accordo è proprio l’Unione Europea. Non si tratta solo dei programmi congiunti europei, in particolare la transizione ecosostenibile, proposti dal Presidente Von der Leyen, che sono stati privati delle risorse essenziali e sacrificati sull’altare degli egoismi statali. È proprio il progetto di un’Europa che condivide obiettivi e politiche comuni ad essere stato battuto. Ad oggi, l’unica cosa certa è che l’Unione è un’istituzione squisitamente interstatale, dove il Consiglio sceglie da farsi in base alle trattative dei singoli Capi di Stato e di governo dove ognuno chiede qualcosa per il proprio tornaconto e chi è più abile nelle trattative e a far valere la propria voce semplicemente ottiene di più. La dimostrazione di ciò è l’indebolimento dell’idea di legare lo stanziamento delle risorse al rispetto dello stato di diritto. Principio “annacquato” da una richiesta ungherese, sostenuta dall’esecutivo polacco e sloveno, passato senza problemi data la delicatezza del momento. In breve: tutti sono usciti vincitori, tranne la stessa Unione Europea.