Per essere un Paese dell’Unione Europea, non basta far parte di una moneta unica come l’Euro, rispondere ossequiosamente ai “richiami centrali” e far quadrare numeri in un bilancio. Per sentirsi europei bisogna vivere da europei e attuare politiche comuni e non solo monetarie tese a controllare l’inflazione. Il lavoro deve essere un tema cardine nella legislazione nazionale ed europea in materia di spesa pubblica e dovrebbe aver standard di qualità alti nella media UE, tenuto conto delle differenze storiche, politiche ed economiche che divino i 12 fondatori dagli ultimi entrati, fra i quali alcuni ancora di disaccordo sull’adesione alla moneta unica.
La ricerca condotta dall’Isfol “Lo stato dei servizi pubblici per l’impiego in Europa”, curata da Francesca Bergamante e Manuel Marocco e pubblicata nella collana Occasional Paper di Marzo 2014 www.isfol.it, si concentra sulle tematiche dei costi, organizzazione e risultati. Scopriamo dunque tendenze, conferme e sorprese.
In controtendenza rispetto alla media UE, il periodo attuale di congiuntura economica in Italia si traduce nel depotenziamento del servizio pubblico in favore dei Centri per l’impiego (Cpi). Tra il 2008 e il 2011, ,mentre i principali Paesi dell’area euro hanno reagito alla crisi finanziando ulteriormente il settore in questione, agendo sulla spesa e sugli addetti, l’Italia ha investito quasi 200 milioni di euro in meno. Certo, il nostro caso – come quello dei Paesi del Mediterraneo – è particolarmente complicato per via del Debito Pubblico in continua crescita, ma per rimanere in Europa da europei è necessario trovare i fondi per investire su un sistema pubblico di presa in carico del disoccupato.
Le risorse finanziare dedicate ai Cpi sono lo 0,03% del Pil, contro una media UE dello 0,25% che tradotto significa un investimento di 500 milioni di euro. Per quanto possa sembrare una cifra onesta, non è altro che la metà di quanto spende la Spagna e molto lontana dagli 8.872 milioni della Germania o dai 5.047 milioni della Francia.
Parlando in termini organizzazione delle risorse umane, ovvero di operatori Cpi, nel nostro Paese non arrivano alle 9000 unità, contro gli 11.000 della Spagna, i 49.000 della Francia né tanto meno ai 115.000 della Germania. Se si pensa che il 33,7% dei disoccupati contatta un Cpi e solo il 19,6% si rivolge alle Agenzie per il lavoro (Apl), sembra chiara la diseguaglianza fra domanda e offerta di servizio per l’impiego. Questi dati ne producono così degli altri rivelatori dalle abitudini di ricerca di lavoro per gli italiani: l’80% dei disoccupati mostra una maggior fiducia nelle reti informali e il 66% nella richiesta diretta alle imprese.
La ricerca Isfol mette in luce i risultati, comparando Apl e Cpi; i dati sono in favore del Pubblico, con una maggiore capacità di collocazione. Mentre la media UE, nel 2011, raggiunge il 9,4%, con punte del 10,5% per la Germania e del 13,2% per la Svezia, in Italia gli intermediati dal Cpi sono il 3,1% del totale dei dipendenti occupati nell’anno. Il dato assoluto è di 3 volte inferiore alla media europea, ma se confrontato internamente è di ben 5 volte più elevato di quello delle Apl private.
Viene sfatata inoltre anche l’idea che i Cpi costino troppo allo Stato; in realtà non è così. In Italia la spesa media per il collocamento di una persona è pari a 8.673 euro, a differenza dei 51.100 euro dell’Olanda, i 44.202 euro della Danimarca, i 21.593 euro della Francia e i 15.833 euro della Germania. A maggior ragione si comprende quindi che l’Italia ha bisogno di un potenziamento del servizio pubblico per i Cpi, aumentando il numero degli operatori e adeguando qualità e quantità del servizio offerto. Va inoltre attuata la normativa relativa all’accreditamento dei soggetti privati impiegando maggiori risorse nel monitoraggio centrale che ne valuti i risultati e le difficoltà.
Nell’ottica positiva di una seppur lenta ripresa dalla crisi finanziaria internazionale e nel mondo del lavoro, la misura economica che permetterà la risalita negli istogrammi del settore non può che essere l’aumento degli investimenti; una regola valida per l’imprenditoria tanto quanto per il servizio pubblico, con la differenza che il rischio d’impresa bisogna prenderlo tutti insieme.