Prima di farsi un opinione sulla questione del nuovo contratto a termine, bisogna sapere cos’è un contratto a temine. Il quadro di riferimento di questo tipo di contratto è una direttiva dell’Unione Europea introdotta nel 2001 che indica i principi guida di questo strumento. Il principio cardine è legato al numero di lavoratori assunti: i contratti a termine non possono superare quelli a tempo indeterminato. Di conseguenza, i contratti a termine risultano l’eccezione rispetto ai contratti a tempo indeterminato. L’unica differenza tra i due contratti sta solo, appunto, nella scadenza: uno ha un termine prefissato e l’altro no. Inoltre, il ricorso al contratto a termine per lo stesso tipo di mansione è possibile solo per un massimo di tempo: 36 mesi. Oltre questo termine, se si vuole utilizzare lo stesso lavoratore nella stessa mansione, scatta il contratto a tempo indeterminato.
Dal punto di vista delle garanzie i due contratti sono identici. Prevedono lo stesso salario, la stessa tredicesima, le stesse ferie, lo stesso TFR, la stessa maternità e così via. Si tratta, quindi, di una flessibilità tutelata. La precarietà di cui tanto si parla, invece, è un’altra cosa.
Le aziende, normalmente, ricorrono a questo tipo di contratti per gestire sopratutto i picchi di produzione. Questo tipo di organizzazione del lavoro, prevalentemente nelle aziende medie e grandi, è indispensabile. Una parte maggioritaria dei dipendenti è a tempo indeterminato per la gestione della “normalità” dell’attività produttiva, mentre una percentuale minoritaria a tempo parziale viene utilizzata per la gestione dei periodi fluttuanti della produzione che non può essere gestita altrimenti. Questa è la ragione di fondo per il ricorso ai contratti a tempo determinato.
Rispetto a questa situazione di fondo, tuttavia, esistono due posizioni. C’è chi vorrebbe che all’interno della cornice e dei limiti descritti ci fosse una forte liberalizzazione, come avviene in alcun paesi d’Europa, chi invece ritiene necessarie delle ulteriori limitazioni.
Una delle “limitazioni” più forti presenti nel nostro ordinamento era, prima della Riforma Renzi, la causale. In altri termini, ogni contratto a termine doveva specificare la ragione “tecnica, organizzativa, produttiva o sostitutiva” che giustificasse il ricorso al contratto a termine. Lo stesso contratto a termine poteva essere prorogato una sola volta. Già la riforma Fornero aveva previsto che per il primo contratto e per un massimo di 12 mesi la cosiddetta “a-causalità”. Si poteva stipulare il primo contratto, quindi, senza indicare le motivazioni.
Renzi ha deciso di estendere la a-causalità del primo contratto a tempo determinato a tutto il periodo massimo di utilizzo di questo contratto, ossia 36 mesi, e aumentato la possibilità delle proroghe fino a 8 volte. In sostanza, per fare un esempio, sarà possibile avere un contratto a tempo determinato senza causale suddiviso in 9 “mini contratti” di durata di 4 mesi ciascuno per un periodo massimo di 3 anni. Come limitazione, però, la nuova norma prevede un limite del 20 per cento (cose che prima non era previsto) di utilizzo di questo contratto rispetto al totale dei lavoratori in organico nell’azienda. Quindi, vale solo per un quinto del totale dei dipendenti.
Per i lavoratori la conseguenza più grande di una simile riforma non è nell’aumento dell’instabilità lavorativa, anche perché la maggioranza di questi contratti in Italia è già sotto i 6 mesi di durata, secondo le vecchie regole, ma principalmente nel contenzioso. L’obbligo di indicare la causale dava spazio a numerose vertenze legali tra azienda e lavoratori proprio in ragione dell’arbitraria interpretazione che si poteva dare alle ragioni previste per il ricorso a questo contratto. Nel momento in cui la causale viene meno, scompare (in parte) anche la vertenza di lavoro.
Per il resto cambierà poco per i lavoratori a tempo determinato rispetto alla prassi di questi anni. Forse, invece, rendendo il contratto a termine meno “burocratico” questo potrebbe facilitare un aumento del suo utilizzo rispetto ai veri contratti precari, ossia i contratti a progetto, di collaborazione e i le partite Iva, indebitamente utilizzati. Rispetto a questo risultato, sembra (il condizionale è d’obbligo), in base ai dati Isfol, che la legge Fornero abbia innescato un effetto sostituzione tra contratti impropri e precari con il contratto a tempo determinato considerato come flessibilità positiva e tutelata. Nel 2° trimestre del 2012 i contratti a tempo determinato sono passati dal 62,3% al 67,3%, e si è trattato soprattutto di contratti di brevissima durata e sotto i 12 mesi. Contemporaneamente sono diminuiti i contratti intermittenti del 4,2% e quelli di collaborazione dell’1,6%. Che esista un rapporto di causa e effetto tra i due dati non ne sono certo, tuttavia, questi risultati dimostrano la crescita dei contratti a termini sotto i 12 mesi e quindi quelli senza causale previsti dalla Fornero.