Due studiosi americani, a cui il Financial Times ha dedicato un articolo di fondo, si sono posti una domanda. Per il miglior funzionamento di un’azienda e della sua organizzazione del lavoro è utile una buona dose si stupidità? In altre parole, l’ambiente di lavoro dovrebbe essere ispirato all’opposto della creatività e dello spirito critico, per un suo miglior funzionamento? I dipendenti dovrebbero limitarsi ad eseguire le direttive, senza farsi troppe domande e con uno spirito di fiducia verso i propri superiori e manager. Questo l’ambiente di lavoro ideale, secondo Mats Alvesson e André Spicer, docenti di economia e autori del curiosissimo studio in questione. Un ambiente opposto, animato da un continuo spirito critico, indebolirebbe le capacità di lavoro e le possibilità di ottenere risultati positivi. Insomma, i “cacadubbi” sono banditi, seconda questa teoria. E’ ovvio che tale studio suscita tante perplessità e una diffidenza istintiva. Come si può pensare che la stupidità possa produrre qualcosa di buono?
La stupidità è necessaria: hanno le prove – I due ricercatori, come riportato dal Corriere delle Sera, sostengono che ci sono le prove empiriche di quanto sostenuto. “Il problema è che una certa dose di stupidità è essenziale, secondo loro. I Manager devono istillare tra i collaboratori una dose di stupore. Un ambiente di lavoro che si basa su un patto di ingenuità tra il management e i collaboratori risulta più efficiente e felice, di uno, all’opposto, dove prevalgono domande continue e un diffuso senso critico. Troppa intelligenza blocca”. Soprattutto se è diffusa tra i collaboratori, aggiungerei.
La tesi di fondo sembra essere questa. In un ambiente di lavoro non ci possono essere troppe teste pensanti. Questa funzione in teoria spetterebbe ai manager, titolari ufficiali dell’intelligenza, e ai collaboratori resterebbe un ruolo puramente esecutivo e acritico, se si vogliono ottenere risultati soddisfacenti. Mah!
E i talenti? – Quanto sostenuto dai due economisti contrasta palesemente con tutte le teorie opposte dominanti nei nostri giorni che puntano sulla valorizzazione delle persone, anche in termini di coinvolgimento nelle decisioni, come elemento fondamentale della competitività delle aziende. Non a caso si parla sempre di più di talenti e sempre meno di dipendenti, soprattutto in ambiti di lavoro con elevato livello di competenze.
L’Università “anarchica” – All’estremo opposto dei due economisti “stupidologhi” c’è un modello universitario basato sul caos e sull’anarchia. E’ il caso del KaosPilots Institute situato nel centro di Aarhus, seconda città della Danimarca, molto conosciuta per il suo porto sul mare del Nord e per il suo museo a cielo aperto. Il fondatore di quest’università è nientemeno che il Ministro della Cultura danese, Uffe Elbaek.
Lo scopo dell’università è di creare leader del futuro, imprenditori e manager dalla mente aperta, senza dogmi e pregiudizi e dal cuore impavido. Il metodo utilizzato per raggiungere l’obiettivo è opposto a quello in uso nelle “normali” scuole: niente libri di testo, niente professori in cattedra e niente compiti in classe. Tutto si basa sul caos liberatore d’individualità e aspirazioni. Chissà che faranno i laureati all’università dei piloti di kaos dopo, viene da chiedersi. Ebbene, ecco i dati: dei circa 600 laureati in 20 anni, il 33 per cento è diventato imprenditore, il 63 per cento è diventato manager e solo il 4 per cento non ha trovato occupazione. E, come direbbe il Ministro della Cultura danese, “I piloti del caos non cercano lavoro, ma lo creano per sé e per gli altri”. Se pensate, però, che diventare piloti di caos sia facile, vi sbagliate di grosso. La selezione è molto rigida e sono ammessi solo 30 fortunati studenti ogni anno provenienti da tutta Europa.
Meglio la stupidità o il kaos?