Iacopo Benevieri esercita la professione di avvocato penalista a Roma. Da molti anni si occupa del linguaggio come strumento di attuazione di diritti e di esercizio di poteri nel processo, argomento sul quale ha scritto in numerose riviste e di cui tratta come relatore e formatore in convegni e corsi di aggiornamento professionale.
“Cosa indossavi? Le parole nei processi penali per violenza di genere” è il libro scritto da Iacopo Benevieri. L’autore vuole invitare il lettore a conoscere e riconoscere quegli unconscious bias, ovvero stereotipi, pregiudizi, credenze e supposizioni che appartengono a ciascuno di noi in quanto parte integrante del nostro percorso di crescita e che sono alla base di atteggiamenti non fondati sull’esperienza diretta. Pregiudizi che non sappiamo di avere perché non sappiamo che siano pregiudizi e che si insinuano nelle nostre relazioni minandole. “Cosa indossavi?” E’ anche una delle domande capziose che molte vittime di violenza si sono sentite rivolgere nelle aule giudiziarie e che, non solo devono rievocare l’episodio traumatico, ma anche gestire emotivamente quel sottile (ma non troppo) tentativo di generare dei sensi di colpa per l’aggressione subita. La storia ci riporta al V secolo a.C e al primo episodio di violenza alla nobile Lucrezia dal figlio dell’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo; Lucrezia chiama intorno a sé i suoi cari e si toglie la vita trafiggendosi con la spada esclamando: “Che nessuna donna viva più nel disonore!”.
Partiamo dalle conclusioni. Ad un certo punto Lei dice che “le pareti dell’aula di udienza sono membrane attraversate dall’area della società esterna” lasciando intendere che il tipo di linguaggio oggetto di analisi della sua opera nei confronti della vittima è il portato della formazione e dell’approccio socioculturale dell’individuo nel rapporto uomo-donna (in un determinato momento storico). Quanta è la consapevolezza sul protagonista dell’aula giudiziaria dell’influenza di tale approccio? Le parole nascono da rimbalzi di fenomeni, da echi di caverne, da epifanie di miti. Il nostro linguaggio rappresenta ciò che per i paleontologi sono le ossa di un animale: dal linguaggio è possibile dedurre le abitudini di una società umana, come dalle ossa è possibile ricostruire la vita di una specie estinta. Ecco, non credo che nei protagonisti e nelle protagoniste dell’aula di giustizia vi sia una piena consapevolezza delle parole utilizzate, del loro peso specifico, dei loro significati nascosti ma che giungono molto chiaramente alla persona interrogata. Quando uso il “tu” nel fare le domande a una vittima di violenza e, nello stesso processo, uso il “Lei” per rivolgermi all’imputato, compio una scelta molto chiara. Credo dunque che non vi sia una piena consapevolezza di ciò, nel senso che quantomeno non c’è una consapevolezza lucida, quell’attenta autosorveglianza che dovrebbe guidarci mentre prendiamo la parola e formuliamo le domande. Il linguaggio che viene usato nella società per descrivere il ruolo della donna entra anche nell’aula di udienza e questa osmosi si verifica quotidianamente.
In relazione alla sua esperienza diretta o indiretta nel campo giudiziario, ha potuto osservare una evoluzione del linguaggio in considerazione dell’aumentata sensibilizzazione che a livello mediatico, legislativo, scolastico vi è stato nel corso degli ultimi anni sul tema? Per rispondere dobbiamo distinguere due livelli. A un primo livello questa maggiore sensibilizzazione si sta verificando: faccio riferimento ai corsi di aggiornamento professionale, alle iniziative di formazione dei vari organismi forensi, agli spazi dedicati nelle riviste scientifiche che hanno visto (seppur molto lentamente e con tante difficoltà) un lieve aumento delle occasioni di riflessione dedicate a questo tema. A un secondo livello, invece, questa sensibilizzazione non sembra ancora aver varcato le aule di giustizia, dove la pratica quotidiana evidenzia un uso del linguaggio spesso sessista e stereotipico. Credo che una delle ragioni di questo cortocircuito risieda nel fatto che dovremmo far sì che la formazione e i corsi di aggiornamento su questo tema presentino, accanto a una parte “teorica”, anche momenti di elaborazione pratica: spiegare, da un lato, perché la domanda “cosa indossavi?” non può esser ritenuta ammissibile e, dall’altro, mostrare le tecniche per formulare le domande in modo da rifuggire stereotipi e cliché sessisti. Abbiamo bisogno, cioè, di avviare una sorta di “laboratorio pratico del linguaggio di genere”. Perché niente come il linguaggio è il nuovo “corpo” della società che deve essere curato.
La sua opera dovrebbe rivolgersi a molti poiché il tema del linguaggio di genere è comune a più ambiti ed i suoi effetti si estendono a chiunque usi il linguaggio in contesti istituzionali e professionali. Lo sforzo in questo libro è proprio quello di presentare il tema ricorrendo a un linguaggio trasversale, comprensibile da chiunque, indipendentemente dall’attività lavorativa o professionale svolta. In altre parole, nelle mie intenzioni il libro vuol essere “specialistico” rispetto al tema trattato, ma “non specialistico” rispetto a lettori e lettrici ideali. Questo perché, come Lei ha giustamente osservato, il tema del linguaggio di genere innerva la vita dell’intera società civile. Illustrare per esempio, come faccio nel libro, attraverso quali tecniche comunicative possono essere formulate domande sessiste è questione di interesse non solo per il/la professionista del diritto, ma anche per chi si occupa di comunicazione giornalistica, per chi insegna a scuola, per chi formula le domande in un colloquio di lavoro, per chi fa politica, per chi presta assistenza sanitaria. Suddividere il tema del linguaggio di genere all’interno degli angusti perimetri di singole discipline professionali, declinarne la trattazione secondo gli specifici linguaggi delle persone cui è destinato (medici, giudici, avvocate e avvocati) è un errore imperdonabile: significa non comprendere che la questione riguarda l’intera società e tutte le sue componenti. Di ciò ne ho avuto prova tangibile in occasione della presentazione del libro alla Fiera della Piccola e Media Editoria di Roma nel dicembre del 2022, quando ho visto con gioia la partecipazione di un vasto pubblico, eterogeneo, rappresentativo cioè della società: studentesse e studenti, insegnanti, assistenti sociali, professionisti e professioniste di ogni ambito. Insomma, la questione del linguaggio di genere riguarda tutte e tutti e deve essere trattata per tutte e per tutti.
Grazie