Nessuno si aspettava una svolta dal repentino G7 in videoconferenza voluto dal Primo Ministro britannico. Tuttavia, allo stesso modo nessuno si aspettava un vertice così avaro di contenuti e privo di qualsivoglia soluzione. Fondamentalmente, le due ore di confronto sono servite al Presidente americano, Joe Biden, a ribadire una volta per tutte che entro il 31 agosto le truppe americane lasceranno l’Afghanistan. Dunque, si è trattato di un summit quasi inutile nella pratica, nonché di una sonora sconfitta per Boris Johnson e per il Cancelliere tedesco, Angela Merkel, che più di altri hanno tentato di convincere l’amministrazione statunitense ad estendere le operazioni di ritiro per permettere il trasferimento dei collaboratori afghani. È l’immagine dell’Occidente, però, ad uscirne drammaticamente deteriorata, con America ed Europa segnati da una visione quasi opposta e incapaci di tracciare una linea comune concreta.
Divisioni che rafforzano i Talebani. I leader del summit non hanno potuto fare altro che prendere atto della decisione americana. Si è fissata una sorta di piano con alcuni punti comuni da seguire, ma ormai compromessa e sottomessa al possibile dialogo con i Talebani. Il motivo è molto facile da intendere: senza la presenza statunitense nel paese, diventa quasi impossibile per gli Stati europei mantenere il collegamento aereo da Kabul. Ovviamente, come dichiarato da Boris Johnson, “la condizione numero uno è che essi garantiscano un corridoio sicuro” a tutti coloro che vorranno lasciare il Paese dopo il termine del 31 agosto. Ovviamente, dati anche gli eventi degli ultimi giorni, è difficile credere che i Talebani diano un reale seguito alle loro dichiarazioni. Tuttavia, vale anche il ragionamento del Primo Ministro inglese sul fatto che il G7 possiede strumenti capaci di condizionarli dopo il ritiro. Un altro problema, però, è rappresentato anche dall’atteggiamento delle potenze estere, in particolare da quello di Pechino e di Mosca.
Chi vuole rimanere e dialogare per le risorse afghane. Infatti, non sono solo i Paesi europei a non volersene andare, ma diversi grandi attori asiatici hanno deciso di rimanere. Tuttavia, quest’ultimi stanno già avviando prove di dialogo con il neo Emirato. Dopo aver accolto con stupore, in alcuni casi compiaciuto, la repentina vittoria dei miliziani islamisti, molti disegnano i propri nuovi interessi nei confronti del regime talebano e, dopo Cina, Russia e Turchia, anche l’Iran ha annunciato l’intenzione di mantenere aperta la propria ambasciata a Kabul, proponendosi come mediatore tra le “nuove” istituzioni afghane e la comunità internazionale quando si potrà. Certamente un caso particolare quello della Repubblica sciita che si propone come sponsor di un Emirato islamico sunnita ultra conservatore, ma che ha la sua evidente logica. Infatti, l’Afghanistan ha una posizione strategica in Asia Centrale, con un sottosuolo ricco di giacimenti minerari, per un valore stimato che supera i mille miliardi di dollari. A differenza dei primi anni del Duemila, gli Stati Uniti non hanno più interesse nei confronti di queste risorse, ma il loro controllo rappresenta un elemento di notevole interesse per le potenze asiatiche. Tuttavia, diverse sono le problematiche legate al Paese. Lo Stato afghano rimane uno dei paesi più poveri al mondo, con un’economia che dipende per l’80% dagli aiuti internazionali, e, con i Talebani al potere, il rischio che Kabul torni a essere epicentro di instabilità regionale e globale, nonché di alimentazione dell’estremismo jihadista, non è così improbabile.
Cina. Per quanto Teheran si proponga come mediatore tra le parti, è scontato che ha giocare un maggior ruolo sul futuro afghano sarà il ruolo giocato da Pechino e Mosca. In particolare, il dragone cinese si è mostrato molto attivo nel momento della presa di Kabul da parte dei Talebani, con il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying, che ha da subito affermato: “Cina rispetta il diritto del popolo afghano di determinare in modo indipendente il proprio destino e futuro, ed è disposta a continuare a sviluppare relazioni amichevoli e di cooperazione”. Naturalmente, il nuovo regime rappresenta un’opportunità di vantaggi per la Cina, ma allo stesso tempo nasconde diverse insidie geopolitiche. Di certo, la disastrosa ritirata degli Stati Uniti rappresenta un punto a favore per la propaganda cinese, che ha definito le vicende afghane come la dimostrazione del fallimento del modello di “State building” statunitense. La vicinanza all’Afghanistan rappresenta però anche rischio per Pechino. Infatti, il dragone condivide ben 76 chilometri della frontiera della grande regione dello Xinjiang con lo Stato afghano e ciò potrebbe comportare un sostegno dei Talebani alla causa dei separatisti della minoranza islamica Uiguri. Dunque, la Cina è pronta ad offrire molto pur di evitare nuove tensioni nella regione: anzitutto l’ambito riconoscimento internazionale del regime talebano, oltre a un sostegno concreto alla ricostruzione e allo sviluppo dell’Afghanistan coinvolgendolo nella Belt and Road Initiative.
Russia. Parzialmente diverso l’approccio di Mosca. Putin, come l’amministrazione cinese, favorirà un approccio “pragmatico” in chiave anti-terrorismo con il nuovo regime talebano. In particolare, i russi, nonostante non condividano un confine diretto con l’Afghanistan, sono preoccupati dalla contingenza dello stato afghano con Tajikistan, Uzbekistan e Turkmenistan. Dunque, Mosca pur aprendo al dialogo con i Talebani ha in contemporanea ampliato le esercitazioni militari con le ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, a maggioranza musulmana, lungo il confine afghano. Lo stesso ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha ribadito che la Russia non accelererà il processo di riconoscimento del governo talebano, chiedendo inoltre al nuovo regime di instaurare un dialogo nazionale inclusivo e che includa tutte le forze politiche per stabilire un governo di transizione.
La lucidità di Draghi. Nonostante il summit del G7 non abbia prodotto grandi risultati, uno dei leader più lucidi e pragmatici è stato di certo il Presidente del Consiglio, Mario Draghi. Il Capo dell’esecutivo italiano ha chiesto di mantenere un contatto con Kabul anche dopo la scadenza del 31 agosto. Come ha specificato lo stesso Draghi è necessario garantire “la possibilità di transitare in modo sicuro dall’Afghanistan e dobbiamo assicurare, sin da subito, che le organizzazione internazionali abbiano accesso all’Afghanistan anche dopo la scadenza”. Inoltre, l’Italia ribadito l’importanza di ampliare il dialogo ad altri attori, convocando un G7 straordinario a settembre per coinvolgere Russia, Cina, India, Arabia Saudita e Turchia. Nel chiedere ciò Draghi ha annunciato il reindirizzo degli aiuti per le forze afghane in aiuti umanitari, lanciando un’ultima provocazione ai leader del summit: “Il G7 deve mostrarsi unito anche nell’aprire relazioni con altri Paesi. In questo il G20 può aiutare il G7 nel coinvolgimento di altri Paesi che sono molto importanti perché hanno la possibilità di controllare ciò che accade in Afghanistan. Chiedo a tutti voi di unirvi a questo impegno, compatibilmente con la situazione dei vostri Paesi. Saremo in grado di avere un approccio coordinato e comune? Finora sia a livello europeo sia a livello internazionale non siamo stati in grado di farlo. Dobbiamo compiere enormi sforzi su questo”.