Cinthia Bianconi è nata a Bruxelles, vive e lavora a Roma. Laureata in giurisprudenza all’Università degli Studi di Firenze è iscritta all’Albo degli Avvocati di Roma e dal 1995 esercita la libera professione con studio proprio ed operando nel settore del diritto civile. Già Segretario Generale, nel 2016 è nominata Presidente della Fondazione Adriano Olivetti.
Ci racconti il suo percorso professionale e quali figure sono state di ispirazione per lei. Prima del percorso professionale e quindi il momento in cui scegli e cerchi di capire cosa ti potrebbe interessare fare nella vita, ho pensato a varie cose e le figure che avevo davanti erano una professoressa di Lettere. Io ho fatto le scuole in Belgio. Lei era stata in un campo di concentramento e deportata ad Auschwitz, quindi una sopravvissuta. Aveva il tatuaggio sul braccio ed era una professoressa durissima. Non so perché io sono stata sempre affascinata dalle persone apparentemente dure ma con dei cuori giganti e con delle capacità enormi di far fronte alle situazioni emergenziali o complicate. Fumava in classe e si metteva in fondo vicino al lavandino quando facevamo il compito e aveva un’aria veramente terribile, arcigna, mentre in realtà era una persona di una grande bontà e molto generosa e ci ha dato tantissimo.
Poi mia nonna che era rimasta vedova molto giovane ed era tornata in campagna dove aveva delle terre che ha portato avanti da sola in un piccolo paese crescendo due figli maschi che ha portato fino all’ università. Quindi il superare le difficoltà mi ha sempre affascinato.
Poi mio padre laureato in giurisprudenza che scelse di non fare il principe del foro e di imbarcarsi in un’avventura più grande che era allora la costruzione dell’Europa e quindi è andato a fare il funzionario alla commissione europea. Lui era una persona che stimolava la curiosità costantemente e non c’era un momento in cui non ci poneva domande e ci sollecitava delle riflessioni e dei pensieri. Una continua attenzione verso l’altro ricamando anche delle fantasie e dei ricordi immaginari. Con lui ho avuto una bella crisi quando ho deciso di fare giurisprudenza perché lui era una persona che non ti diceva hai sbagliato ma ti diceva “sai esistono delle leggi” e poi nel momento in cui si desiderava qualcosa non accettava che gli venisse chiesto una volta sola ma si doveva discutere, argomentare e ragionare del perché e alla fine concludeva: va bene io non sono d’accordo, ma fai come vuoi. Doveva essere un processo lungo che portava allo sfinimento. Forse voleva verificare il fondamento del desiderio. Mi aveva educato pensando che sarei andata in Italia, che avrei fatto giurisprudenza, che avrei fatto l’avvocato e quando io ho detto che probabilmente avrei voluto fare altro abbiamo fatto una grossa discussione che è servita molto alla nostra relazione e alla fine ho concluso che giurisprudenza era la mia strada. Ero partita pensando di voler fare il giudice dei minori, ho fatto una tesi in Diritto Comparato sull’adozione dei minorenni in Italia e in Inghilterra, volevo mettermi a servizio dell’umanità. Poi ho capito che c’erano delle materie più stimolanti ed interessanti ed alla fine aiuto gli altri lo stesso.
Nella professione c’è stato il prof. Alberto Predieri dal quale ho iniziato la pratica e dal quale ho imparato tutto. Anche lui una persona burbera, di altri tempi, un signore nato nel 1921, che aveva fatto la guerra in Russia, il partigiano ed era un uomo di grande successo. E’ stata una persona dalla quale ho imparato a non demordere mai e lui stesso mi diceva: “tu vuoi fare l’avvocato? Certo, si. Ma tu sei una donna. Ed io rispondevo: Si, ma ci sono tante donne che fanno l’avvocato. Si, ma io ti parlo dell’avvocato avvocato”, come se raggiungere un certo livello era già un successo e non poteva andare oltre. Eppure era una persona che riconosceva il valore del lavoro, della dedizione al lavoro e che non si stancava mai.
Questi sono i miei esempi. Quelli che non hanno mai demorso. Che hanno sempre lottato magari anche contro sé stessi, contro la stanchezza, contro le avversità ma che non si sono mai buttati giù al punto da lasciarsi andare.
Quali sono stati gli ostacoli che ha incontrato nel suo percorso professionale? Tutto sommato io sono stata fortunata e non so se per il modo in cui mi sono posta non ho avuto grossi ostacoli a livello professionale. Era ancora un mondo molto maschile e in un certo senso lo è ancora, per quanto noi donne dell’avvocatura siamo tantissime, però poi è sempre il livello, come diceva il professore, ai livelli alti dell’avvocatura sono ancora molti i maschi rispetto alle femmine, però io mi sono adattata.
Ci sono state delle cose. I più anziani soprattutto, se mi trovavo vicino alla porta ed entrava una persona di una certa età mi dava il cappotto anche se il mio dominus mi presentava come la dottoressa o l’avvocato a seconda degli anni o si attendevano che tu gli facessi il caffè. Io ho sempre ignorato l’offesa. Non mi sono mai sentita offesa.
Cosa le ha consentito di non sentirsi offesa? L’autostima. Ritengo che ci siano cose importanti verso le quali puntare, gli obiettivi, grandi o piccoli, e sono quelli che devi raggiungere, il resto bisogna farselo scivolare, e forse a me questo è accaduto in modo naturale. Ma anche la consapevolezza della diversità tra maschi e femmine o più ancora della diversità in generale. Qui la scuola ha inciso in modo importante. La scuola europea che io ho frequentato era suddivisa in varie sezioni linguistiche, creata inizialmente per i figli dei dipendenti delle istituzioni europee, farli stare insieme e condividere le diversità. Io sono cresciuta con compagni di scuola che facevano la loro sezione linguistica e condividevamo delle ore in cui lavoravamo insieme e quindi il fatto di vedere che le persone uguali a te, con le stesse sembianze possono avere dei diversi modi di vivere, ti porta ad un certo grado elevato di tolleranza, che magari alcuni possono ritenere superficialità, ma io trovo che sia una spinta profonda perché la tolleranza impedisce la creazione di un muro e se non c’è un muro hai meno da superare, non ti devi arrampicare e puoi andare più libero. Quindi forse è stato anche questo: l’offesa è un po’ lo specchio dell’intolleranza o della non consapevolezza delle diversità. Mi sono sempre detta offendersi per alcune cose e mettere da parte l’obiettivo non ne vale la pena. E’ meglio perseguire l’obiettivo.
Può essere anche fortuna, però sicuramente il mio maestro era una persona che riconosceva il lavoro e anche se nato nel 1921 era una persona che, al di là di cose della loro epoca, degli stereotipi, in realtà profondamente erano molto evoluti. Non si sarebbero sognati dentro di loro di mettere un disvalore per il fatto di essere dell’altro sesso.
Anche movimenti come METOO, che portano avanti battaglie importanti, penso che, certo sono comportamenti da censurare ma non per i quali sentirti offeso. Devi censurare, devi spiegare che è sbagliato. Devi crescere una generazione che capisce da sola che è sbagliato o che può non essere apprezzato un certo tipo di comportamento e pertanto tu devi astenerti dal farlo. Non è offensivo nel senso di farne una bandiera che poi terrorizza le giovani ragazze. A mia figlia ho sempre detto tu devi camminare sempre dritto facendo pensare che conosci bene la strada e qualsiasi cosa ti dovesse succedere e chiunque tu possa incontrare sul tuo percorso, se tu sei uno che conosci la strada vuol dire perdersi di meno e dare meno l’occasione ad altri di inserirsi.
Per cui ostacoli direi di no. Nella mia ultima parte di una certa vita professionale dove sono stata commissario liquidatore di alcune società a partecipazione pubblica, ecco li è stato il potere, maschile o femminile che fosse, che è stato un ostacolo, quantomeno quella visione del potere, quello che non ascolta, che va avanti per la sua strada, che credo non sia definibile solo come maschile, anche se probabilmente le donne hanno un altro tipo di atteggiamento. Il potere che rovina, quello di un sistema che ti obbliga a stare dentro in un certo modo e diventa un cane che si morde la coda e finisci per essere scartato in maniera non gradevole. Non mi sono persa d’animo, la democrazia è un concetto delicato.
Cosa vuol dire pari opportunità per lei? E’ un concetto molto complesso e sul quale mi sono interrogata tante volte. Quando è uscita la legge sulle pari opportunità e quindi sui posti riservati all’interno dei cda di un certo tipo di società, ho pensato che fosse una buona idea anche se io di solito non penso che sia una buona idea fare una legge per obbligare qualche cosa, penso che sia meglio un percorso formativo che parta dalla famiglia, dalla scuola, quindi non è necessaria una legge per sapere per esempio che non devi buttare la roba in terra. Quindi all’inizio ho pensato si, va bene, siccome bisogna fare i conti con chi non ha capito che non bisogna buttare la roba in terra, obblighiamo e teniamo considerazione delle quote rosa. Mi sono anche avvicinata ad una associazione di donne e li mi sono resa conto che diventa un discorso ghettizzante e sempre un discorso di potere. Allora, maschi o femmine che siano o di qualsiasi genere, la persona non ha sesso e i valori che si porta dentro sono molto più importanti dei nomi che dai, della femminilizzazione di tutti i nomi. Importante è educare in egual modo che tenga conto della differenza maschio /femmina che comunque c’è e non dobbiamo negarla. Non penso che non si possano fare le stesse cose, e neanche che non ci sia bisogno ancora di un gran cammino, soprattutto ufficialmente, da fare. Sappiamo tutti che c’è disparità economica, che le donne hanno una vita complicata, ma la vita complicata delle donne non la cambia il fatto che ci sia un nido all’interno dell’azienda, si alleggerisce un po’, ma il pensiero di una madre si alleggerisce fino ad un certo punto e comunque anche il padre che fa troppo la madre non è esattamente quello che ci vuole. Ci vogliono più campane. Si può crescere nel modo in cui si vuole perché non è questo ma poi è necessario trovare la complementarità di te stesso. Quindi se sei una femmina devi riuscire a trovare un complementare che possa essere il padre, lo zio o l’amico di famiglia e il contrario la maestra, il maestro. Nelle nostre scuole ci sono pochissimi maestri e questo non va bene perché l’approccio diverso crea del valore.
La diversità c’è e non può essere negata. La Parità ci deve essere, deve mantenere la diversità e deve trarre vantaggio da quella diversità e quindi tolleranza e conoscenza del diverso.
Per esempio io credo moltissimo nell’amicizia maschio-femmina e questo è un concetto che dipende sia dalle culture europee, più meridionali o meno, sia anche da come crescono le nuove generazioni. Però, ancora oggi, dobbiamo fare i conti con il discorso dell’uomo cacciatore, che non sarà amico perché ha un secondo fine, invece lo scambio maschio-femmina nell’amicizia crea un valore dell’altro, crea la comprensione del misterioso altro, poter condividere il punto di vista senza doverlo spiegare a tuo marito, al tuo partner. In Belgio, in Olanda sono molto più avanti su questo tipo di discorso. Il punto è dunque anche poter tenere un certo grado di autonomia.
Ci racconta di cosa si occupa la Fondazione Olivetti? Presiedo la Fondazione dal 2016 e sono nel CDA dal 1998. Sono stata per un periodo molto breve anche segretario generale. Ci sono arrivata per un’amicizia che è nata in quel momento, per una di quelle cose strane della vita, per uno sguardo simpatico, ridente di Laura Olivetti che aveva gli occhi azzurri come suo padre. E’ stata un’esperienza nata come un’esperienza professionale con il mio professore che aveva scritto lo statuto della Fondazione nel 1962. Mi ha parlato di questa giovane signora, che ho poi incontrato, che aveva un problema di natura giuridica da sottopormi e così siamo diventate amiche. Mi ricordo che una volta mi scrisse una lettera in occasione di un mio compleanno e mi scrisse “io mi ricordo la prima volta che sei venuta a casa e non eri un avvocato come io immaginavo che fossero gli avvocati, avevi delle scarpe grosse” si, in effetti un po’ fuori dalle convenzioni lo sono sempre stata anche per la mia massima tolleranza.
Lo sviluppo di un’amicizia sicuramente intuitiva e tanti punti in comune compreso anche questo sentirsi un po’ fuori. Laura Olivetti era una psicologa e voleva che questa Fondazione rinascesse. Io non conoscevo bene Adriano Olivetti e mi ricordo che menzionai suo padre come quello delle macchine da scrivere, allora lei mi diede da leggere “Città dell’uomo” ed ho scoperto un mondo. Io mi nascondevo dietro le mie origini belghe ma in realtà pochi sanno chi sia stato Adriano Olivetti e probabilmente ne conoscono più l’aspetto imprenditoriale, il successo del prodotto. Così mi sono talmente coinvolta che non mi sono mai staccata e mi sono messa a completa disposizione e dopo la scomparsa di Laura i consiglieri hanno deciso di chiedermi di presiedere la fondazione. In realtà chi fa la politica e la strategia della Fondazione è il segretario generale e nel momento della presidenza ho voluto ristabilire quello che è sempre stato e ho accettato solo con la nomina a segretario generale del figlio più giovane di Laura Olivetti, Beniamino De’ Liguori Carino.
La fondazione nasce nel 1962 dopo la morte di Olivetti. Il figlio Roberto e alcuni della famiglia decisero di costituire la Fondazione in modo da portare avanti nel tempo i valori di Adriano Olivetti negli ambiti di architettura, economia, politica, diritto. Gli ambiti del pensiero di Olivetti. Imprenditore e pensatore curioso. Un filosofo. Persona che non ha mai smesso di abbeverarsi a qualsiasi cosa e la sua biblioteca è infinita perché ci sono testi diritto, di scienze sociali, di politica, di architettura, di yoga, testi di economia. Si interrogava in continuazione, studiava e voleva migliorare il mondo in generale, la comunità e mettersi a servizio.
Quindi la Fondazione si occupa di questo ed il segretario generale a seconda del suo stile e della sua formazione ha dato un’impronta sulle scienze giuridiche, sull’architettura, la storia. Inizialmente la fondazione era vigilata dal ministero dell’Interno ora invece da diversi anni è sotto la vigilanza dei Beni culturali ma questo fa parte della storia perché nel 1962 c’erano due ministeri che vigliavano sulle fondazioni: l’Istruzione e l’Interno.
Culturale è il posto più adatto per essere collocata e custodire la memoria di Adriano Olivetti è quello che si è fatto fino alla proclamazione di Ivrea Città industriale del XX secolo all’interno dei siti del patrimonio mondiale, lavoro che, iniziato nel 2008 si è concluso nel 2018. Attualmente la Fondazione, partendo dai fondamenti del pensiero olivettiano, partecipa ai processi di innovazione con attenzione all’Intelligenza artificiale e alla digitalizzazione.
La storia ed i principi sociali della Scuola Olivetti sono stati di insegnamento per molte generazioni, uno fra tutti quello di mettere “l’uomo al centro della sua fabbrica”. Oggi si sente spesso ripetere questa frase. E’ “tornata di moda”? Tornata di moda sicuramente e certamente se ne parla. In realtà, secondo me viene anche da un bisogno vero che è il lavoro ed il pensiero, il lavoro di pensiero che c’è confrontandosi con l’innovazione attuale, con l’intelligenza artificiale, con il digitale. E’ una spinta verso l’essere umano laddove la concezione semplicistica ovviamente della macchina, della tecnologia che rimpiazza l’uomo evidentemente fa sorgere come una paura di essere esclusi, da un lato, e dall’altro quello che potrebbe succedere se effettivamente le macchine o l’intelligenza artificiale dovessero cadere in mani sbagliate perché non penso che mai avrà un suo cervello, andrà programmato in un certo modo o messo a disposizione di determinate persone e questo potrebbe costituire un vero problema.
Olivetti ha lasciato una storia ed una memoria del suo esperimento, che è talmente sopravvissuta ed è talmente fuori dal tempo, dal suo tempo quando lui metteva in atto la sua filosofia, il suo modo di essere imprenditore nel momento in cui lo faceva. E’ sopravvissuta perché molti si sono ispirati e ne fanno derivare la responsabilità sociale d’impresa che non è esattamente la stessa cosa, ma poco importa. Le mode ci sono state ed i richiami al suo pensiero ed il suo essere imprenditore di un certo tipo sono come una copertina.
Quando ho a che fare con l’esterno e partecipo a degli scambi su questi argomenti, vedo e sento, da più parti, il bisogno di posizionare l’uomo al centro o comunque di farlo riemergere, questo essere umano, questa persona. Sembra incredibile, ma come mai non è così? E’ così semplice, così immediato…viviamo in una comunità. A parte per questioni antropologiche, un egoismo antropologico, vi è una mancata visione della collettività, una stanchezza, una diseducazione a tante cose, però se di fronte all’immagine del sopravvento delle macchine si riuscirà ad inserire di nuovo la persona al centro allora direi cogliamo l’occasione che facciamo due cose utili: da un lato guidare questa intelligenza artificiale e prevenire delle aberrazioni e dall’altro creare valore diverso.
Cosa dovrebbero riprendere o riconsiderare le aziende di quel modello imprenditoriale. Dovrebbero riflettere sulla frase di Adriano Olivetti che dice: l’impresa non può essere solo profitto “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?” Discorso ai lavoratori di Pozzuoli pronunciato da Adriano Olivetti in occasione dell’inaugurazione del nuovo stabilimento il 23 aprile 1955.
Il suo ragionamento era di trovare un equilibrio tra il capitalismo ed il socialismo. Potrebbe sembrare anche una banalità perché non è che il profitto non debba esserci e non è che un’azienda non debba essere condotta secondo il principio di un utile però, la creazione di valore all’interno di un’azienda, cioè l’ascolto reciproco, la possibilità di formarsi, e non perché bisogna fare le 100 ore, ma formarsi con l’esperienza, essere visti, essere scoperti, valorizzare la multidisciplinarità. Per esempio non è detto che debba essere scartato il poeta perché non sa far di numero. Quindi l’impresa come una comunità che si unisce per costruire e all’interno di questo ci sono i valori che si creano all’interno di un’azienda.
Olivetti diceva: l’imprenditore è in debito con i suoi dipendenti perché passano tutto il tempo della loro vita dentro la fabbrica, quindi l’imprenditore deve restituire qualcosa e lui restituiva senso di giustizia, cultura, bellezza.
Le aziende sono delle piccole o grandi comunità e penso che l’ascolto e la capacità di creare valore vuol dire avere la capacità di individuare le persone. Qualche tempo fa ho avuto a che fare con un’azienda come consulente esterno e vedevo questa continua job rotation. Ecco io penso che non ci sia una cosa più orribile della job rotation, penso che sia un’idea completamente folle: è una dispersione inutile di esperienze e una follia laddove poi c’è anche il contatto con il pubblico. Con le fusioni e le incorporazioni poi tutto ciò è amplificato perché si prendono delle identità e si buttano al secchio. Ecco, non possiamo pensare di risolvere un problema o di formare le persone facendole girare da un punto all’altro. Poi non bisogna smettere di studiare e di interrogarsi che è l’insegnamento di Olivetti. E non può essere nemmeno che ci sia una ricetta immutabile o valida per tutte le situazioni, perché non funziona per tutte le aziende e per un periodo di tempo illimitato ma fino a quando arriva qualcun altro che ti dice cosa devi fare.
Una volta ho partecipato ad un evento e c’era un HR che dichiarava di non avere il nido aziendale perché davano un rimborso per il nido come benefit, di non utilizzare il cartellino e lasciare “liberi” gli impiegati di portare il risultato entro la scadenza prevista e di andare perfettamente d’accordo con i sindacati. Ho fatto notare che si erano mascherati da Olivetti perché così è tutto snaturato. La mia è una visione esterna, da consulente di casi concreti che ho visto ma ci sono di cose molto belle delle quali ho indirettamente sentito parlare, quali per esempio ABOCA® che è un’azienda di fitofarmaci dove tutti i dipendenti, circa 1200, sono tutti felici di essere lì e voglio ricordare una pubblicazione dell’attuale amministratore delegato Massimo Mercati, “L’impresa come sistema vivente” secondo il quale considerare l’impresa come un sistema vivente permette di rileggere la realtà aziendale in profondità.
Quale sarà la strada che il nostro Paese dovrà intraprendere dopo la Pandemia e attraverso il next generation EU. Qualche tempo fa parlavo con un taxista. Loro sono dei saggi perché che toccano con mano tante realtà. Mi viene in mente una cosa in negativo o comunque da combattere. Vuol dire essere meno egoisti, pensare meno al proprio orticello che è una cosa molto italica, avere più senso civico. Il rischio è non sollevarsi. Se ci si dà tutti una mano, avremo di sicuro più possibilità.
Mi dico che una pandemia durata due anni, potrà durare un residuo di un altro anno. Sembrava che avessimo capito tutti tantissime cose, adesso c’è la voglia di ricominciare, c’è una specie di ubriacatura di rimettersi in pista ma se non distribuiamo e se non pensiamo alla comunità per me non si va molto lontano. Credo che questo sia un problema di tutti e non solo dell’Italia poi naturalmente bisognerà utilizzare bene questi fondi messi a disposizione, secondo un concetto di ridistribuzione e di solidarietà.
Le piccole e medie imprese che sono delle eccellenze in Italia e sono riconosciute in tutto il mondo non sappiamo valorizzarle ed in ogni caso le teniamo ognuna nel suo binario. Ci vorrebbe maggiore collaborazione e solo insieme si possono fare le cose. Io cambierei di nuovo il nome all’Unione Europea e ritornerei a Comunità europea che rende l’idea, sei unito, solidale nella diversità.