Uffici improvvisati in soggiorno, riunioni di lavoro in cucina o sul divano, aree delle case destinate a scrivanie e computer: solo poco più di un anno fa difficilmente avremmo immaginato che la nostra casa si sarebbe trasformata così. Eccezion fatta per i freelance che hanno sempre lavorato da casa, per i lavoratori dipendenti in smart working (o meglio lavoro da remoto) molto è cambiato.
E quale sarà ancora di più l’impatto del lavoro agile su abitazioni e stili di vita? A dirlo un report redatto dall’Ufficio Studi di Gabetti che si intitola per l’appunto “Smart working e nuove esigenze abitative” che ha analizzato, per capire le tendenze in corso e quelle future, le risposte date in un sondaggio condotto su più di 300 lavoratori.
Chi lavora da casa utilizza essenzialmente la dimora abituale. Intanto il report lo conferma: oltre l’80% di coloro che svolgono smart working, utilizza la dimora abituale, mentre il 10% la seconda casa.
Ma non tutti hanno una stanza ad hoc per lavorare: solo il 22% ha una vera e propria stanza adibita a studio, mentre il 43% lavora in soggiorno e circa il 15% delle persone in camera da letto. Il 9% ha invece dichiarato di lavorare in cucina, mentre la restante parte in modo indifferente tra i vari ambienti dell’abitazione, alcuni dei quali assumono le forme di una stanza multifunzionale.
Tantissime persone lavorano in soggiorno perché manca una stanza ad hoc. “Il fatto che il 43% degli smart worker intervistati lavori in soggiorno è indicativo di due esigenze abitative: da un lato la mancanza di un vano in più che costringe i lavoratori alla configurazione di una postazione di lavoro nel soggiorno, dall’altro la multifunzionalità della living room durante l’arco della giornata”, dichiara Francesca Fantuzzi, Responsabile Ufficio Studi Gabetti.“Questo potrebbe influire su una maggiore richiesta di abitazioni dotate di un soggiorno di metrature considerevoli, caratteristica sempre più ricercata soprattutto in mancanza del vano in più. Di contro, avere una stanza dedicata al lavoro rimane in cima alle caratteristiche abitative più ricercate”.
Uffici improvvisati grazie a scrivanie mobili pieghevoli al muro. Quanto al lavorare nella camera da letto, ciò è possibile perché le persone utilizzano sempre più le scrivanie mobili pieghevoli al muro creando in questo modo una postazione che, nel momento di andare a dormire può essere tranquillamente “nascosta”. Certo è che alzarsi dal letto e restare nella stessa stanza tutto il giorno non è sicuramente un buon modo di portare avanti il lavoro né tantomeno influisce positivamente sul work-life balance.
Ma come potrebbe lo smart working cambiare le esigenze abitative in futuro? Non poco, se una persona su 4 ha risposto di avere l’intenzione di comprare, o di avere già comprato, una casa di dimensioni più grandi a causa del lavoro da remoto, che richiede uno spazio dedicato. Una tendenza ancora più evidente nelle città che non sono capoluogo per le quali la percentuale sale al 30%.
Emerge ancora che circa il 24% delle persone che hanno risposto al sondaggio ha effettuato, o effettuerà, modifiche all’abitazione sia per una diversa organizzazione interna degli spazi, sia di arredamento. Un’esigenza soprattutto di chi ha sufficiente spazio per lo smart working – anche se si è in due a dover lavorare da casa – ma non ha trovato la giusta razionalizzazione per la realizzazione delle postazioni “ufficio”.
Lo smart working comporta spesso un trasferimento nel comune di origine. Per i molti lavoratori che hanno sperimentato il lavoro da remoto full time e ai quali l’azienda ha comunicato di volerlo mantenere anche dopo la pandemia, l’impatto sul modello abitativo ha una dimensione rilevante: il 21% del campione ha infatti risposto che lo smart working ha comportato, o comporterà, un trasferimento nel comune di origine, prevalentemente nel centro e nel sud Italia, quello che viene chiamato south working (di cui noi di KongNews abbiamo già parlato).
Un dato che emerge ancora di più per i residenti nei comuni capoluogo (28%) e in particolare nelle grandi città (30%), rispetto ai residenti nei non capoluoghi dove rappresenta solo il 9% dei casi. Tra le ragioni di questa scelta radicale, il 33% lo ha fatto (o lo farà) per avvicinarsi ai propri cari, il 22% perché lo ritiene un ambiente ideale dove far crescere i propri figli, il 21% per il minor costo della vita e il 14% perché già proprietario di un’abitazione.
Trasferinenti anche all’interno della stessa regione o regioni limitrofe. Oltre al trasferimento nel proprio comune di origine, l’8% degli intervistati ha risposto che si è già trasferito, o si trasferirà, in un comune della stessa regione o in una regione limitrofa a quella dove ha sede il lavoro.
Questa scelta per il 40% di chi ha risposto, portata avanti in particolare da coloro che raggiungono l’ufficio soltanto alcune volte al mese, è principalmente legata al fatto di voler vivere in un posto più a contatto con la natura, ma allo stesso tempo raggiungibile dall’ufficio in un paio d’ore. Sulla stessa scia, il 13% del campione lo ha fatto anche perché stanco della vita frenetica della città, mentre l’altro 13% perché crede sia un ambiente ideale dove far crescere i figli.
Cresce l’esigenza di affittare una casa più grande o acquistarne una seconda. Il lavoro da remoto pesa sulla casa anche per il fatto che il 3% degli intervistati invece prevede di affittare una nuova abitazione magari più grande. L’affitto è la scelta più adatta per chi non ha intenzione di comprare e anche per chi non se lo può permettere.
La stessa percentuale ha poi pensato di acquistare una seconda casa, così come di trasferirsi in un comune dell’hinterland metropolitano (3%) legato principalmente ai minori costi dell’abitazione, soprattutto per le famiglie che vivono in città in cui i valori di mercato sono abbastanza elevati. Percentuale bassissima, l’1%, è quella di chi ha pensato di trasferirsi un altro quartiere.
Ripensare gli spazi domestici riguarda un po’ tutti. Da quello che emerge dalla ricerca, è innegabile come la pandemia e le nuove modalità di lavoro si riflettono sull’abitazione privata portando molte persone nonché famiglie a ripensare gli spazi domestici.
“In generale”, precisa Fantuzzi “il lavoro da remoto alternato all’ufficio sembrerebbe diventare la modalità più diffusa per gran parte delle società, con la conseguente e crescente esigenza di disporre in casa di una stanza in più o di uno spazio dedicato alla propria attività, determinando l’opportunità di trasferirsi in altre località, anche di tornare nella propria città d’origine. L’impatto diretto dello smart working sui bisogni abitativi è dimostrato dal fatto che quasi 9 smart worker su 10 hanno dichiarato di avere cambiato, o avere in programma di modificare, la propria situazione abitativa. Se una parte, il 24%, si potrà organizzare effettuando migliorie interne alla propria abitazione, anche con iniziative di ristrutturazione grazie agli incentivi fiscali, la restante parte si orienterà verso l’acquisto o l’affitto di una nuova abitazione di dimensioni più ampie o con spazi meglio distribuiti”.
Dall’affitto si può passare all’acquisto o a soluzioni alternative come il co-living. C’è da dire, inoltre, che proprio per i motivi appena detti, per chi risiede in un’abitazione in affitto, di metrature ridotte, o in condivisione con altri lavoratori, lo smart working potrebbe indurre all’acquisto di una prima abitazione. Ma non solo: anche nella ricerca di nuove soluzioni alternative, come le strutture di co-living che forniscono una serie di servizi inclusi nel canone di affitto (per esempio il servizio di concierge, rete wifi, spazi di coworking). Chi invece è già proprietario di un’abitazione che non offre però spazi adeguati alla nuova modalità di lavoro, potrebbe valutare un acquisto di sostituzione.
La situazione del mercato immobiliare. Le prospettive di chi cerca casa vanno tuttavia confrontate con la situazione concreta del mercato, che nel 2020 è stato caratterizzato da un calo fisiologico delle compravendite su scala nazionale a seguito dell’emergenza Covid (-7,7%).
In linea con quanto emerso nel 2020, in termini di compravendite di abitazioni, i comuni non capoluogo hanno visto una flessione più ridotta (-5,7%), con un tasso di crescita positivo nel terzo (+8%) e nel quarto trimestre (+11,8%), rispetto ai capoluoghi e soprattutto alle grandi città, che stanno avendo una ripresa più lenta.
I costi alti di Milano e Roma possono portare all’uscita dalla città. Dove i valori di mercato si presentano più alti rispetto alla media nazionale (soprattutto Milano e Roma) e, in particolare, dove si amplia il divario tra aspettative dei proprietari e disponibilità degli acquirenti, a seguito di un progressivo aumento dei prezzi (come a Milano, +1,8% nel 2020), le nuove esigenze abitative in termini di spazi più ampi potrebbero indurre a uscire dalla città per trovare una soluzione in linea con il budget familiare.
A beneficiarne, come si è visto, sono innanzitutto i capoluoghi secondari e i piccoli comuni non legati alle metropoli, mentre l’hinterland ha rilevato il 5% delle preferenze nell’ambito di coloro che risiedono nelle grandi città, percentuale che sale all’8% nel caso di Milano, a pari merito con il trasferimento in un comune della stessa regione. Questo significa che, principalmente in una città come Milano, il trasferimento nell’hinterland può essere un buon compromesso tra raggiungimento del minor costo della vita, vicinanza con la città e soddisfacimento delle nuove esigenze abitative.
Nelle grandi città in cui i valori di mercato sono più contenuti e in diminuzione (come Torino e Genova), le caratteristiche della domanda sembrano avere un impatto diverso in termini di scelta localizzativa dell’abitazione. In questi contesti, le abitazioni dei quartieri periferici, potrebbero essere oggetto di attenzione da parte di chi necessita di sostituire l’abitazione con una più ampia, così come le zone semicentrali, rese più accessibili dalla diminuzione dei prezzi.