La distanza siderale tra il cosiddetto Paese reale, come amano definirlo i conduttori dell’informazione spettacolarizza dei talk show, e la politica è semplicemente imbarazzante. La protesta andata in scena ieri da parte di commercianti, ristoratori, ambulanti, era del tutto prevedibile, come del resto la sua strumentalizzazione da parte di frange dell’estrema destra. C’è anzi da meravigliarsi che non sia arrivata prima, ma forse questo attiene allo spirito nazionale: si sa che, come diceva Ennio Flaiano, in Italia non si faranno mai le rivoluzioni perché si conoscono tutti. E proprio perché ci conosciamo tutti è assurdo che la politica rimanga assolutamente immobile davanti a una situazione così grave.
Da oltre un anno moltissime attività commerciali sono costrette alla chiusura per colpa del Covid. In una prima fase ciò era giustificato dall’emergenza: il virus era un’incognita assoluta, così come i meccanismi di contagio e le precauzioni da prendere. Il lockdown duro, quindi, è stato una risposta necessaria, anche se dolorosa, l’unica percorribile. Oggi no. Soprattutto non si capisce come in piccoli centri, come quello in cui io vivo nell’entroterra dell’Appennino, dove la distanza sociale è strutturale per ovvi motivi legati al decadimento della curva demografica, ci siano attività costrette ancora oggi a tener chiuso nonostante la messa appunto di protocolli sulla sicurezza e la possibilità di fare tamponi rapidi con una certa velocità.
Il problema è che la politica nazionale, ma anche i presidenti delle regioni, hanno come benchmark le grandi città: Roma, Milano, Firenze, Napoli, Bologna e su queste vengono tarate le politiche: non solo quelle nazionali ma – purtroppo – anche quelle locali. Ora mi domando: in piccoli centri sotto i 3mila abitanti (ma in tanti casi anche sotto i 500), in terre scarsamente popolate come l’Abruzzo, il Molise, le Marche, o in aree come l’Avellinese, che senso ha chiudere un negozio di abbigliamento, una pasticceria, un bar, un ristorante? Sono luoghi dove gli assembramenti non si verificano nemmeno durante le feste dedicate ai santi patroni, figuriamoci ora. Ovviamente possono verificarsi casi di contagio, ma a quel punto è possibile intervenire facendo scattare la zona rossa, come del resto già avviene. Chiudere resta un’opzione, ma non può essere l’unica opzione.
Altrimenti ci raccontiamo favole: davvero qualcuno pensa che il negozio di abbigliamento per bambini di un paese di 3mila anime rappresenti un pericolo tale da giustificare misure draconiane? C’è chi immagina l’Italia come un’immensa via dello shopping e dell’aperitivo, ma questo significa ignorare dove e come una parte considerevole degli italiani vive: piccoli borghi, paesi e frazioni nei quali le attività commerciali e artigianali rappresentano, prima ancora che un pezzo rilevante dell’economia locale, un servizio, un argine allo spopolamento. La periferia del Paese, di cui tanto si parla, forse perché “fa fino”, come si dice a Roma, non sta solo nelle grandi città, ma anche nelle aree interne e nei paesi della dorsale appenninica. Luoghi ai margini ma pieni di storia e ricchezza, che questa pandemia dovrebbe far riscoprire e valorizzare.
E’ inutile ripetere in coro, tutti i giorni, che bisogna accelerale sui vaccini, se poi non diamo a questa Italia dimenticata la possibilità di sopravvivere lavorando. Un’ultima annotazione. Capita spesso di ascoltare politici (non solo loro, per la verità, si tratta di un luogo comune entrato da tempo nel discorso pubblico) che parlano senza troppo discernimento di intere categorie – commercianti e artigiani di solito sono in testa alla classifica – come di evasori, da punire e dannare in blocco. Va detto a chiare lettere che così si fanno due torti in uno: alla verità e alla giustizia. Perché non è vero che “sono tutti evasori”, come vuole la vulgata. E perché il sentimento dell’ingiustizia subita, specie in momenti di profondo turbamento, può scatenare pulsioni difficilmente controllabili e molto facilmente strumentalizzabili. E’ quello che sta accadendo. Per questo dico: non sottovalutiamo la rabbia delle persone oneste.
In un momento come questo servirebbe una revisione delle imposte sulle piccole attività commerciali e artigiane, oltre che una sorta di moratoria fiscale rispetto all’anno passato. Non si può pensare che tra qualche mese, ad emergenza archiviata, come tutti ci auguriamo, presentarsi come niente fosse a chiedere di versare contributi Inps, tasse comunali e regionali, imposte nazionali, senza concedere un po’ di respiro a chi per un anno è stato senza reddito. A meno che non si pensi che i ristori, quelli già pagati e quelli ancora da pagare, bastino a tamponare le falle perché in questo caso lo scollamento dalla realtà, di cui parlavamo all’inizio, finisce per rivelarsi una malattia peggiore perfino del Covid. Tanti commercianti e artigiani non riapriranno e senza di loro le nostre città saranno più povere, i nostri borghi sempre più deserti e privi di servizi: questa è la verità. Se la politica non prende coscienza adesso del pericolo il peggio è dietro l’angolo.
A cura di Augusto Bisegna e Carlo D’Onofrio.