La pandemia del COVID-19 ha messo in crisi molti settori e, di conseguenza, ha impattato in modo negativo sui salari, mentre i posti di lavoro sono stati solo parzialmente tutelati da misure di protezione come il blocco dei licenziamenti disposto dal Governo fino a marzo 2021. Nonostante questo, ci sono stati settori che hanno tratto un giovamento in termini di business e, oggi più che mai, la percezione del valore dello stipendio assume una dimensione “relativa”, in cui l’elemento della sicurezza del salario con ogni probabilità assume un peso nuovo. Anche di questa ulteriore chiave di lettura si è cercato di tenere conto nell’indagine di quest’anno.
La ricerca è stata effettuata su oltre 2000 lavoratori dipendenti con una survey online focalizzando l’attenzione su 6 dimensioni:
- equità (sono pagato il giusto rispetto al mio ruolo e rispetto agli altri);
- competitività (sono pagato in linea col mio valore di mercato);
- performance e retribuzione (sono pagato in proporzione al mio contributo individuale);
- trasparenza (capisco e ho chiari i criteri di politica retributiva del mio datore di lavoro); 5) fiducia e comprensione (condivido i criteri di gestione delle retribuzioni della mia azienda) 6) meritocrazia (le ricompense vanno davvero a chi se le merita).
I livelli di soddisfazione
(Da 0 a 10 // se > 5 è positivo). La condizione vissuta nel 2020 ha inevitabilmente avuto un forte impatto sulle percezioni dei lavoratori rispetto ai loro salari. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, il livello generale di soddisfazione, pur restando insufficiente è aumentato in modo significativo rispetto al 2019, passando da 3,7 a 4,4 (+19%). I lavoratori che hanno espresso in giudizio positivo sono quasi il 46%, rispetto al 34% rilevato nel 2019 mentre il totale dei lavoratori totalmente insoddisfatti scende dal 26,3% al 18,9%. Solo per gli operai si registra un livello di forte insoddisfazione (3.5)
Si è riscontrato un ulteriore miglioramento laddove agli intervistati sia espressamente richiesto di tenere in considerazione la pandemia nell’effettuare le loro valutazioni. In questo caso il livello di soddisfazione è risultato pari a 5,1, anche superiore al 4,4 relativo alla soddisfazione generale e maggiore del 38% rispetto alla soddisfazione 2019.
L’indice generale di soddisfazione torna quindi a crescere dopo il calo registrato lo scorso anno, come crescono tutti gli altri indici di soddisfazione mappati: Equità (indice: 4,6, trend 2020-21: +0,4); Competitività (indice: 5.0, trend 2020-21: +0.3); Performance e retribuzione (indice: 4.1, trend 2020-21: +0.4); Trasparenza (indice: 4.9, trend 2020-21: +0.2); Fiducia e comprensione (indice: 4.1, trend 2020-21: +0.4); Meritocrazia (indice: 3.9, trend 2020-21: +0.7).
L’anno della pandemia sembra aver portato i lavoratori a una rivalutazione in positivo della propria retribuzione. In un periodo di “vacche magre” la priorità è intanto averne una: di fronte ad un mercato del lavoro dove in molti hanno perso il posto, dove molti altri lo vedono protetto solo dal divieto temporaneo dei licenziamenti e dove anche chi è ragionevolmente sicuro di mantenerlo ha visto calare i propri guadagni, la valutazione appare decisamente più indulgente che nel passato. Questo fenomeno viene confermato dal fatto che chi lavora in aziende impattate negativamente si dichiara più soddisfatto del suo salario (4,4) di chi ha lavorato in aziende positivamente impattate dagli effetti della pandemia (4,1).
Molto forte la correlazione tra CIG e livello di soddisfazione. Al crescere del periodo passato in CIG cresce il livello di insoddisfazione, al punto che se si introduce la richiesta di valutare il salario considerando l’impatto della pandemia, a differenza che in tutti gli altri casi, la soddisfazione non aumenta, ma diminuisce raggiungendo un valore minimo di 2,8 per chi è è in Cassa Integrazione da oltre 3 mesi. La possibilità di lavorare in remoto è un fattore che aumenta il livello di soddisfazione. Per il gruppo di lavoratori che non aveva mai beneficiato dello smart working il livello di soddisfazione generale è di 4,5 (se con la pandemia ha iniziato lo smart working) e di 3,6 (se anche con la pandemia non ha potuto lavorare in smart working).
L’insoddisfazione è più forte per le categorie di lavoratori che, nel mercato, percepiscono retribuzioni più basse: è il caso in particolare degli operai (3.2). Il livello di insoddisfazione è inoltre più elevato nel Sud e Isole (3.9) e nelle piccole imprese (3.9). Il tema della meritocrazia è la chiave di maggiore insoddisfazione, con un punteggio di 3,9 e oltre il 30% dei lavoratori fortemente insoddisfatti. Da questo punto di vista, tuttavia, si osserva come esista una correlazione molto significativa fra la percezione di meritocrazia e la concreta comprensione dei criteri adottati per la politica retributiva.
Tutti gli indici analizzati hanno un punto in comune: in presenza della sola quota fissa della retribuzione la soddisfazione è impattata in senso fortemente negativo. L’arricchimento del pacchetto è un fattore decisivo per incrementare la soddisfazione dei lavoratori, indipendentemente dalle leve che si vogliono introdurre.
La soddisfazione rispetto allo stipendio è fortemente correlata alla percezione di equità e quella di essere retribuiti in rapporto al contributo fornito all’organizzazione, alla gestione dei criteri di associazione dello stipendio al valore del lavoro (posizione) e al valore della persona (prestazione). Questi sono elementi viaggiano quindi sul medesimo binario.
Scelta del posto di lavoro: cambiare o restare?
Le relazioni con colleghi, collaboratori e superiori diventano quest’anno il fattore più importante nella scelta di un posto di lavoro. Seguono retribuzione fissa e il contenuto del lavoro. La retribuzione fissa è al primo posto nelle motivazioni che spingono a cambiare lavoro con un distacco di 26 punti percentuali rispetto alla possibilità di sviluppare carriera. Il terzo fattore più importante in questa decisione è la retribuzione variabile individuale.
Nella scelta di restare nel proprio posto di lavoro, al contrario, è fondamentale la qualità della vita. Sono infatti i fattori intangibili, quali le relazioni con i capi e colleghi, la flessibilità oraria, ambiente di lavoro, a essere in cima alle preferenze dei lavoratori. Se la pandemia ha costretto le aziende a tutelarsi in tema di sicurezza e di norme anti-contagio, quasi il 60% dei lavoratori ritiene l’azienda a norma in tal senso, e non lascerebbe l’azienda per questo motivo. Singolare notare come oltre il 22% pensa che l’azienda non li tuteli, ma, nonostante ciò, non la lascerebbe.
Aspettative
Le aspettative dei lavoratori per il 2021 risultano contrastanti: il 21% da un voto da 0 a 2 e il 17% da un voto pari o superiore a 8. Il risultato complessivo è una valutazione media di 5,0 nella scala, ossia l’esatta soglia che distingue tra fiduciosi e non, ma la fiducia cala chiaramente nei cluster dove il livello retributivo è mediamente più basso (Operai, Sud e Isole, Piccole aziende). Il 67% dei lavoratori ritiene che non avverranno modifiche alla propria retribuzione durante il 2021. Il 24% ritiene che aumenterà e solo l’8,6% ritiene che diminuirà.
Differenze di genere
La soddisfazione, che tenga conto o meno della crisi sanitaria globale, è generalmente più alta per gli uomini (4,6 contro 3,9). Particolarmente di rilievo sono le differenze sugli indici di equità salariale (4,8 contro 3,9) e di performance e retribuzione (4,2 contro 3,5). Gli uomini si mostrano anche maggiormente fiduciosi sul futuro delle retribuzioni (5,1 contro 4,4). In questo contesto, prendendo a riferimento solo i lavoratori “soddisfatti” l’unico elemento che ha contribuito a una maggiore soddisfazione delle donne rispetto agli uomini è stato quello di averci guadagnato in termini di equilibrio fra tempo della vita privata e tempo del lavoro grazie allo “smart working”.
“Sappiamo che le retribuzioni nel 2020 hanno registrato un’illusione di crescita salariale, cioè il valore medio dello stipendio è aumentato contestualmente alla crescita della disoccupazione ed dell’inattività. Questo fenomeno – spiega Alessandro Fiorelli (CEO di Jobpricing) – si è prodotto perché sono uscite dal mercato del lavoro soprattutto persone con retribuzioni più basse della media, ma, ovviamente, non si tratta di un dato positivo. L’indice di soddisfazione – in crescita rispetto all’edizione precedente del report – ci mostra in un certo senso questo fenomeno da una diversa prospettiva: poiché l’indagine si è rivolta a chi uno stipendio lo percepisce, appare con molta chiarezza che le persone si dichiarano più soddisfatte in media perché, in un certo senso, sentono di aver “scampato” il pericolo. Non stupisce in questo senso che la soddisfazione media sia più alta per chi dichiara di lavorare in aziende “fortemente” impattate in modo negativo dalla pandemia, rispetto a chi invece lavora in aziende in cui il virus ha avuto impatti positivi per il business. In conclusione, la soddisfazione dipende sempre dal confronto con gli altri e, infatti, non è un caso se – per la prima volta dal 2015 – la valutazione sulla competitività di mercato delle retribuzioni raggiunge la soglia minima di soddisfazione (5/10), proprio in un anno in cui, oltre alla stagnazione retributiva che affligge il nostro paese ormai da molti anni, sappiamo che il reddito medio dei lavoratori è calato per effetto del minor numero di ore lavorate, solo in parte recuperate grazie agli strumenti di integrazione salariale”.
Dall’analisi emerge chiaramente che lo stipendio non è la ragione principale per cui oggi un professionista decide di restare in azienda. Negli ultimi cinque anni, infatti, è cresciuto il peso di elementi quali le relazioni con colleghi, collaboratori e responsabili, work life balance e ambiente di lavoro. Per quanto le prospettive economiche risultino fondamentali, la possibilità di sviluppo e formazione e la possibilità di conciliare tempo di vita e tempo di lavoro sono ritenuti elementi per cui oggi le persone potrebbero valutare di cambiare il proprio lavoro. Retribuzione fissa, training e formazione sono anche le uniche leve il cui valore è cresciuto rispetto a cinque anni fa. Questi trend rappresentano una importante base di conoscenza per aziende e Hr manager alle prese con una grande rivoluzione del modo stesso di concepire il lavoro, anche in considerazione del fatto che fattori tangibili pesano maggiormente quando si valuta se accettare un nuovo posto di lavoro mentre fattori intangibili mostrano tutto il loro peso quando si tratta di valutare se restare in un’impresa perché a quel punto la retribuzione è considerata solo alla luce del contesto complessivo. La retribuzione, quindi, è una leva di attraction mentre il clima aziendale lo è per la retention.