Un percorso verso il cambiamento che stimola le persone all’auto-conoscenza e alla consapevolezza e permette di migliorare il proprio essere nel mondo. Parliamo di coaching con Raquel Guarnieri, direttrice di EEC Italia.
Raquel si è laureata in Psicologia presso l’Università degli Studi di Torino con indirizzo in Psicologia Clinica e di Comunità. Ha conseguito due diplomi in Executive Coaching ed è un Coach professionista certificato dall’International Coach Federation. E’ esperta nella realizzazione di percorsi di cambiamento all’interno delle organizzazioni, di piani di sviluppo e formazione manageriale, di formazione d’aula orientata agli apprendimenti individuali e di team. Dal 2005 è responsabile della filiale italiana della Scuola Europea di Coaching (EEC), che nel 2012 diventa Escuela Europea de Coaching Italia Srl, della quale è oggi Presidente e Amministratore Delegato. Raquel è anche una danzatrice professionista di danza classica, di danza contemporanea e di Tango argentino.
Come definire il coaching?
Secondo l’ICF (International Coach Federation) il coaching è l’assistenza al cliente nel raggiungimento di risultati extra-ordinari. Nella declinazione ontologica abbiamo coaching se, e solo se, il cliente riesce ad acquisire un altro punto di vista, valido per lui, e ad individuare un azione possibile extra-ordinaria per il raggiungimento del risultato che s’è prefisso.
Cosa vuol dire extra-ordinaria?
Con il termine intendiamo un’azione che ci porti al di fuori della zona di comfort, quella delle azioni conosciute e delle abitudini, la zona in cui ci troviamo comodi e sicuri. Già Heidegger diceva che tutte le azioni che compiamo quotidianamente, a partire da quelle più banali (come alzarsi, far colazione ecc.) sono essenzialmente reazioni, automatismi. Per avere risultati significativi occorre invece agire, rischiare, mettersi in gioco, fare i conti con qualcosa di nuovo, qualcosa di cui non abbiamo dimestichezza, fuori dall’ordinario appunto. Un’azione extra-ordinaria va al di là di quanto prima era ritenuto possibile.
Quali sono i riferimenti teorici fondamentali del coaching ontologico?
I riferimenti fondamentali sono tre: il primo è la filosofia costruttivista, che nasce da Heidegger e da Nietzsche e si sviluppa, nel secolo scorso, con Wittgenstein e Maturana partendo dal presupposto che siamo i creatori della nostra realtà. Il secondo riferimento è la filosofia del linguaggio e l’idea del linguaggio come generatore di realtà, una idea già presente in Heidegger e nello stesso Nietzsche, che viene poi ulteriormente sviluppata con Austin e J. Searle (più nella parte linguistica che non filosofica). E’ il percorso che ha seguito anche Rafael Echeverria, filosofo e linguista, punto di riferimento fondamentale, con la sua “ontologia del linguaggio”. La terza e ultima teoria fondamentale, che noi vediamo superficialmente quando facciamo coaching individuale ma molto più chiaramente quando facciamo team coaching, è la teoria dei sistemi, che deriva anche dal lavoro di Maturana, biologo e filosofo costruttivista.
Uno dei presupposti del costruttivismo è che la “realtà” dipende, più che dalle circostanze esterne (troppo spesso usate come alibi), da come noi rispondiamo, con pensieri, parole, azioni, a quelle circostanze: coltivare la qualità di quelle risposte è un obiettivo del coaching?
L’obiettivo principale è offrire nuovi punti di vista, più che delle risposte. La risposta nasce poi dall’adozione di un punto di vista diverso. Nel coaching ontologico cerchiamo di costruire un nuovo punto di vista, utile per il risultato che vogliamo raggiungere. Quel punto di vista lo può offrire il coach, con le domande e attraverso la conversazione. La nostra attenzione al linguaggio è funzionale alla costruzione di un nuovo punto di vista, di uno sguardo diverso sulla realtà. Le parole che usiamo, le domande che (ci) facciamo, le nostre convinzioni hanno un ruolo, fondamentale in ciò che accade. Dal momento in cui riusciamo ad avere una conversazione nuova, anche con noi stessi, riusciamo a guardare il mondo da un altro punto di vista, determinando una realtà nuova.
Quindi conversazioni nuove e punti di vista nuovi sono essenziali per il cambiamento? E come trasformarli in azioni concrete?
Non ci basta avere la conversazione o il nuovo punto di vista. Dobbiamo chiederci: cosa ci permettono di fare? Quale azione vogliamo intraprendere per raggiungere un risultato? Dobbiamo attivare l’impegno del nostro coachee (cliente): a un certo punto la palla ripassa a lui che si deve prendere la responsabilità d’agire. Noi accompagniamo le sue azioni. Attivare l’impegno del coachee è uno dei pilastri del nostro lavoro. Sappiamo che le persone sono aiutate a mettersi in marcia da una dichiarazione d’impegno, cioè dal tradurre in parole chiare ciò che si vuole ottenere e impegnarsi ad agire, nella direzione indicata. Lo sviluppo delle persone è legato alla loro capacità di prendersi impegni concreti rompendo con i condizionamenti del passato.
Cosa può fare il coaching in un momento di forte difficoltà sociale qual è quella che stiamo vivendo?
Anzitutto promuovere la responsabilità, intesa come abilità a rispondere e gestire le situazioni che dobbiamo affrontare, indipendentemente dalle cause che l’hanno provocata. I fatti sono chiari e non li discutiamo: c’è crisi, manca il lavoro, le banche non danno crediti. Ma è come interpreto ciò che mi accade, che è particolarmente importante. Come posso far fronte a questa realtà che è così com’è (e non come mi piacerebbe che fosse)? Come posso rispondere, date le circostanze in cui mi trovo? Se io dico non trovo lavoro perché mi hanno licenziato, sì, può essere, ma la domanda è: cosa stai facendo ora per cercare un nuovo lavoro? Come lo stai cercando? Come puoi muoverti nella nuova realtà? E’ da come io mi muovo che dipende il raggiungimento o meno del risultato, e come io mi muovo dipende da come io guardo le circostanze. Se guardo come vittima probabilmente penserò “o cambiano le circostanze o non riesco a raggiungere risultato”; se invece faccio fronte, responsabilmente, a quello che mi sta succedendo, la domanda allora diventa: “che opportunità mi dà il mondo ora? Che altre porte mi si stanno aprendo?” La vittima non riesce a vedere ciò che si apre, riesce a vedere solo ciò che si è chiuso. Il responsabile guarda avanti e nel momento in cui riesce a “chiudere” col passato, può vedere con occhi nuovi, può scoprire alte possibilità. Ecco allora che si può aprire un percorso di creatività e innovazione.
Puoi farci qualche esempio concreto?
Abbiamo un esempio diretto in azienda: abbiamo conosciuto G in un corso per dirigenti e managers inoccupati, persone di ambiti diversi che avevano subito ristrutturazioni aziendali…nessuno licenziato per mancanza di capacità. G s’è avvicinato al coaching in quella situazione, ha iniziato un percorso e ha cominciato a collaborare con la nostra scuola, in ambito sviluppo, “inventandosi” un lavoro in un settore completamente diverso dal suo (veniva dall’informatica). Ha raggiunto dei risultati importanti, seppur non nei primi mesi (quando scoraggiato voleva lasciare) ma è riuscito, gradualmente, a vedersi in un altra prospettiva al di là del suo vecchio ruolo: non solo s’è inventato un altro lavoro, ma oggi è diventato coach e formatore. G ora dice che le cose più grandi che ha imparato qui sono l’ascolto, la capacità di rispondere alle diverse necessità e, soprattutto, il superamento delle credenze limitanti.
Qual è il ruolo dell’intuizione nel coaching?
L’intuizione è legata all’ascolto profondo, alle emozioni: in genere è qualcosa che il cliente dice o fa a farla scattare. Io penso, “sento”, che al mio cliente serve un certo punto di vista, ma devo comunque verificare attentamente la mia intuizione: quello che penso, che intuisco, va ricondotto ai fatti, a quello che succede nella dialettica on to one, per verificare se l’intuizione serviva veramente. Dobbiamo esplicitare la nostra intuizione, dirla chiaramente al nostro cliente: “Quando tu mi dici questo io sento che…” Dobbiamo guardare, sempre, se l’intuizione serviva davvero, o non era solo una nostra interpretazione, non condivisa. Le intuizioni vanno ricollegate a ciò ch’è avvenuto nel dialogo. Per questo è fondamentale l’ascolto: se non sono lì ad ascoltare, le intuizioni non vengono.
Il coaching può essere utile per migliorare le relazioni tra le persone?
Tutto il lavoro del coaching serve a costruire conversazioni nuove con gli altri e con se stessi. Noi siamo esseri relazionali, da soli non sopravviviamo. E siccome dal nostri punto di vista il linguaggio non è innocente. Ciò che dico e ciò che non dico, predispone a una buona relazione o a una brutta relazionale. Imparando a conversare diversamente, con se stessi e con gli altri, il coacher cerca relazioni autentiche: tutti i nostri interventi in fondo volgono a migliorare le relazioni. Se non c’è relazione non c’è coaching, né risultati!
Tratto da BrainFactor.it