Ci sono libri che possono provocare reazioni diametralmente opposte tanto sono “innovativi”: una sorta di senso del rifiuto (“Ma cosa sta dicendo?”) o aprire gli orizzonti così da innescare pensieri, parole e azioni, magari non in quest’ordine e non nell’immediato.
“Startupper in azienda” (edito da Egea) è a nostro avviso uno di questi e, ovviamente, se siamo qui a parlarne è perché secondo noi travolge in positivo. Ma potrebbe generare, proprio per i motivi appena detti, una reazione di chiusura.
L’autore è Roberto Battaglia responsabile della Direzione del Personale della Divisione IMI Corporate & Investment Banking Intesa Sanpaolo e il suo libro parte da un presupposto che è anche un ossimoro: ci possono essere degli startupper all’interno delle aziende. E se pensate alla classica figura del giovane che ha un’idea brillante, un business plan e crea una sua realtà, capirete come il perimetro dell’azienda non sembri proprio quello ideale. Ma Battaglia parla di tutti quegli “irrequieti”, quei talenti che hanno guizzi e capacità inespresse che spesso devono mettere a tacere perché dentro i contesti aziendali non possono rivelare il loro potenziale.
Vorrebbero magari farlo – non tutti vogliono essere degli imprenditori! – ma spesso si “adattano” alle regole, al contesto, al “si è sempre fatto così” per evitare che il loro percorso di carriera venga rallentato. A volte lo fanno con rassegnazione, altre prendendo, alla fine, la decisione di andare via. Cosa che per molti CEO è un’opportunità da non farsi scappare mentre invece può essere un’occasione sprecata.
Prima di lasciare la parola all’autore, un’indicazione su come “vivere” questo libro, il cui content design è stato curato da Logotel: si può leggere in maniera sequenziale – ossia dalla prima all’ultima pagina – oppure in maniera selettiva. E questo in 5 modi diversi: tramite immagini che sintetizzano i contenuti; tramite un indice che consente una visione d’insieme ma anche di andare dritto al tema che si vuole approfondire; fruendo i contenuti come se si fosse sul web (titoli parlanti, frasi in grassetto, parole evidenziate), tramite punti di vista divergenti che sono contributi di artisti, chef e altri personaggi su pagine di coloro giallo (in modo da saltare subito all’occhio) e infine scegliendo tra i 3 percorsi su misura: #sapere, #fare, #essere.
E ora la parola all’autore che abbiamo “incontrato” su Microsoft Teams
Perché un libro simile? E chi dovrebbe leggerlo? È stato progettato per una lettura a più livelli e forse di primo acchito potrebbe sembrare destinato solo a CEO e manager, ma è davvero solo per loro? “Il libro per me rappresenta innanzitutto un atto di condivisione verso una comunità, non uno sfoggio di competenze in sé ma piuttosto una personale sintesi delle cose imparate finora e delle opinioni maturate nell’arco di una vita professionale. È un testo in cui parlo di come le organizzazioni sono cambiate e cambiano e in cui racconto l’esperienza concreta che stiamo vivendo da 4 anni in Intesa Sanpaolo con UP (Unlock Potential), uno spazio creato per gli startupper in azienda. Questo non per dimostrare che siamo bravi, piuttosto per mettere a disposizione anche di altri quello che abbiamo fatto e per allargare il dibattito.
Quanto ai destinatari, è rivolto a decisori, imprenditori e manager che hanno un ruolo di responsabilità all’interno dell’organizzazione, a chi si occupa di persone e di innovazione. In primis, è sicuramente per chi decide.
Il secondo pubblico è composto da quelle persone che non si accontentano di approfondire e applicare l’intrapreneurship (l’essere un dipendente-imprenditore, con una forma mentis che all’interno dell’azienda permette di generare nuove idee e sviluppare nuove soluzioni, ndr), ma puntano su di essa come modello di sviluppo personale. Per loro infatti è uno ‘stato della mente’.
In questo secondo pubblico rientrano anche i cosiddetti ‘irrequieti’ aziendali, ovvero coloro che hanno voglia di cambiare il loro proprio destino professionale insieme alle aziende di cui fanno parte. Infine il libro si rivolge ai giovani e agli studenti che vogliono capire come orientarsi dove andare. Per loro il lavoro che verrà non è quello che immaginiamo e vediamo oggi. Il libro non contiene una ricetta preconfezionata – sebbene ci siano molti modelli e tool – ma nasce per stimolare il dibattito. E questo ha ancora più valore nel periodo che stiamo vivendo, il vero tema è infatti ‘Come usciremo da questa situazione’. Progettare la resilienza vuol dire promuovere una riflessione su questi tem”.
Chi sono quindi gli intrapreneur? In cosa si differenziano dall’imprenditore e dal manager? “Sono persone che operano dentro un’organizzazione, ‘hanno fame’, guardano oltre il proprio mandato, hanno sufficiente coraggio, hanno il giusto grado di generosità. Vogliono compiere un salto nel loro destino professionale e vogliono farlo dentro l’azienda in cui lavorano.
L’intrapreneur è una sorta di anello di congiunzione tra il manager e l’imprenditore: l’idea della managerialità prevede crescite di carriera lineari e caratterizzate da uno stile che tende ad essere direttivo. L’imprenditore è chi osa, porta avanti la propria idea con coraggio. In mezzo a queste due figure l’intrapreneur diventa necessario perché spesso le organizzazioni sono così ingessate e hanno regole così nette che non c’è alternativa a quella di creare il nuovo. Nel libro è contenuto un manifesto per gli intrapreneur, articolato in 20 tesi che sono delle proposizioni di valore e di competenze contrassegnate da hashtag”.
Tra questi per esempio ci sono la curiosità, la serendipity, la proattività, l’ambizione, ma anche la generosità, la contaminazione, l’empatia… Indubbiamente il concetto dello startupper in azienda è rivoluzionario. E forse non tutte sono pronte ad affrontarlo. Quali caratteristiche devono avere quelle che vogliono provare a dare voce agli startupper? “Servono aziende disposte a disegnare gli spazi di espressione. Non tanto fisici, quanto virtuali. Una cornice dentro la quale le persone possano muoversi liberamente. Consentire loro prima di ‘fare la creatività’, di innamorarsi di problemi promettenti, mettendo in pratica gli insegnamenti del design thinking. Perché queste sono persone che vanno al cuore del problema e trovano l’opportunità. Lo spazio di cui parlo è un luogo che gli startupper devono poter occupare liberamente e dove possono sperimentare soluzioni che si trasformano in possibilità da finanziare.
E, tengo a dirlo, è cosa diversa dai contest creativi: in quel caso viene prodotta un’energia eccezionale per delle soluzioni che spesso non sono neanche messe in atto. Questi spazi – di cui un esempio è proprio UP – le persone che hanno le caratteristiche che dicevamo sono pronte ad occuparli con determinazione e coraggio. Il coraggio di non essere giudicati.
Perché questo funzioni è necessario che non siano episodici, che ci siano persone pronte a disegnarli e che siano chiare le regole del gioco. Pochi ma chiari meccanismi che consentano di gestire tutto al meglio e di collocare all’interno degli spazi metodi e strumenti: una sorta di cassetta degli attrezzi in continua evoluzione.
È importante invece sottolineare che gli interventi il tema episodici possono produrre effetti negativi perché quando questo avviene, come, oltre che con i contest, anche per gli hackathon e i programmi dedicati all’innovazione, si assiste spesso a uno sprint. Bisogna invece ragionare con i tempi di una maratona. Ecco perché, anziché coinvolgere tutte le persone in una volta, imponendo questi spazi, ha più senso dire ‘Iniziano i primi due, tre’ che poi comunicheranno agli altri quello che sta avvenendo. Anche perché quello di cui parliamo è un posto dove il dipendente può scalare la gerarchia, il che significa, da parte delle aziende, dare un segnale forte: sono delle “zone franche” che possono essere occupate, il cui scopo è far divertire l’intelligenza. E questa deve sentirsi libera di sbagliare e di farlo velocemente”.
Che è poi anche il “Fail fast” delle startup innovative. Ma in tutto questo qual è il ruolo degli HR? “È un mestiere, il nostro, che ha a che fare con la fiducia, non possiamo scherzare con le regole dell’altro, non possiamo disperdere queste potenzialità perché il rischio è che le persone se ne vadano, provocando una perdita significativa di capitale umano. Chi si occupa delle persone deve inevitabilmente fare il mestiere di “guardiano delle regole”, ma deve giocare anche un altro ruolo che ha a che fare un po’ con l’istigatore e ricordare l’importanza di connessione, contaminazione, ibridazione.
Il nuovo nasce perché connetti punti inconciliabili. Secondo me chi fa il nostro mestiere dovrebbe investire più tempo nel portare avanti conversazioni con persone che non appartengono alla nostra filiera professionale. Impegnarsi cioè a guardare mondi diversi. Gli stessi contributor del libro hanno scritto cose apparentemente fuori dal contesto delle aziende, offrendo una prospettiva poco tecnica ma molto stimolante, talora deviante. Deviante nel senso che genera connessioni interessanti. È importante approfondire discipline che non sono collegate con la nostra, è fondamentale avere curiosità, andare “fuori dalla nostra comfort zone”.
E farlo perseguendo la logica della sperimentazione. Vuol dire cogliere qualche rischio, essere dei designer, degli architetti, ma anche degli agitatori. E questo è fondamentale perché le persone sono cambiate, sono mediamente più irrequiete. Dobbiamo far divertire l’intelligenza collettiva. Certo, è innegabile: alimentare la conversazione richiede impegno”.
Chiudiamo con il parlare a chi cerca lavoro o vuole cambiarlo. Come e perché deve far suo questo concetto di startupper in azienda? E in che modo? Usando i tool di cui si parla alla fine del libro, per esempio? “Il metodo è a mio avviso cultura nell’approccio ai problemi e ai modelli, che sono tipici delle startup e possono essere comunque di grande aiuto se applicati a se stessi. Per esempio la versione personale del business model canvas, così come altri strumenti, può essere usato da chi cerca lavoro o vuole cambiarlo perché consente di fare una sorta di ‘punto nave’ di se stessi. Di farsi le domande giuste che, se poste e reiterate in diversi momenti della propria vita professionale, aiutano a capire quali sono le capacità nascoste, spesso del tutto laterali rispetto al lavoro che si sta facendo.
Consiglio pertanto di avere la padronanza degli strumenti: conoscerli aiuta ad applicare un metodo, ma nel momento in cui questo avviene, si può anche decidere di metterlo da parte, perché quello che si è appreso diventa maestria. Lo strumento diventa uno stato della mente, così come si può anche “hackerare”, quello che conta è che non si perda il processo che lo guida. Chi cerca lavoro inoltre deve ragionare in chiave più ampia: in questo può aiutare lo strumento del “What if”, cosa succederebbe se…
Certo, i tool sono utilissimi, a volte la trappola può essere il fatto che le persone si limitino a usarli, svolgendo il compitino e basta. Invece bisogna continuare a essere immaginativi, a sperimentare, a liberare il proprio potenziale”.