La Suprema Corte, con la sentenza n. 23365 del 15.10.2013, ha respinto il ricorso promosso da una società avverso la sentenza resa dalla Corte di Appello di Napoli – che aveva confermato la sentenza di primo grado del Tribunale di Avellino – con la quale era stato ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa di un dipendente a seguito di un procedimento disciplinare nell’ambito del quale allo stesso lavoratore era stato addebitato di avere, in costanza di assenza per malattia, prestato la propria prestazione lavorativa in favore di un soggetto terzo, una agenzia immobiliare.
La Corte, sotto un primo profilo, ha respinto il primo motivo di ricorso attinente la regolarità formale del procedimento disciplinare, confermando la rilevata genericità della lettera di contestazione disciplinare.
In merito, i Giudici di Legittimità hanno ritenuto che la mancata individuazione nella lettera di contestazione dei giorni in cui il lavoratore avrebbe esercitato l’attività in favore dell’Agenzia immobiliare ed il tipo di attività esercitata, avrebbero di fatto impedito al lavoratore di potersi adeguatamente difendere ed al Giudice “di valutare la gravità dei fatti addebitati”.
La sentenza ha ritenuto poi infondato il secondo motivo di ricorso, con il quale la società contestava la idonea valutazione di un fatto decisivo per il giudizio, e cioè che i medici avessero riscontrato nel dipendente una malattia “epatopatia cronica evolutiva” incompatibile con una attività lavorativa.
A tale riguardo, i Giudici di Legittimità, hanno osservato che la Corte di Appello, sulla base delle risultanze istruttorie, aveva rilevato lo svolgimento da parte del lavoratore solo di una “attività sporadica ed occasionale non assimilabile ad una prestazione lavorativa e certamente poco impegnativa dal punto di vista psichico e fisico che, anzi, non solo stante la sua dimensione qualitativa e quantitativa era del tutto compatibile con la malattia sofferta, ma addirittura poteva dirsi funzionale ad una pronta guarigione”.
La Corte, sulla base delle considerazioni di cui sopra, ha ritenuto che la motivazione della Corte di Appello, con la quale era stato ritenuto illegittimo il licenziamento, debba ritenersi “congrua, coerente e strettamente ancorata alle risultanze probatorie”.
Nel caso di specie quindi l’attività esercitata, se pur in costanza di malattia dal lavoratore in favore di soggetto diverso dal proprio datore di lavoro, non è stata ritenuta tale da violare gli obblighi del prestatore di lavoro (ivi compresi quelli di diligenza e fedeltà) e tale da ledere il vincolo fiduciario, stante che la detta attività non è stata ritenuta una vera e propria attività lavorativa e, comunque, non tale da prolungare i tempi di guarigione.
In altre parole la Corte ha ritenuto il licenziamento illegittimo sul presupposto che l’addebito formulato in capo al lavoratore (e quindi l’esercizio di attività lavorativa in favore di soggetti terzi in costanza di malattia e l’aver posto in essere condotte incompatibili con lo stato patologico) è risultato smentito dalle prove emerse nel corso di causa, così come non è risultato provato che le condotte del dipendente abbiano procrastinato la guarigione e il conseguente rientro al lavoro.
Una tale decisione, per le peculiari circostanze del caso di specie, non pare mettere in dubbio che, ove il lavoratore in malattia effettui una vera e propria attività lavorativa in favore di soggetti terzi (così evidenziando la compatibilità del proprio stato con lo svolgimento di attività lavorativa) o comunque ponga in essere condotte tali da procastinare la guarigione, realizzi condotte rilevanti disciplinarmente e passibili di ledere il vincolo fiduciario.
In merito si ricorda, infatti, il costante e consolidato filone giurisprudenziale per cui, lo svolgimento da parte del dipendente di attività lavorativa durante l’assenza per malattia può giustificare il “licenziamento per violazione dei doveri di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui l’attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche quando la medesima attività, valutata “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e con essa il rientro del lavoratore in servizio” cfr. Cass. 10706/2008).
In conclusione la valenza ai fini disciplinari (e quindi di un eventuale licenziamento) dello svolgimento di attività in costanza di malattia dovrà essere valutata, caso per caso, sotto il profilo della compatibilità tra l’attività svolta ed il tipo di patologia e della idoneità dell’attività lavorativa a pregiudicare il recupero delle energie psico-fisiche, ovvero, della simulazione fraudolenta della malattia.