Quando accetti un lavoro, sai quali sono i tuoi diritti? Sai bene cosa firmi quando ‘dici di sì’ a un tipo di contratto parasubordinato? E quando pur di ottenere un nuovo impiego apri una partita Iva? E quando ancora passi da uno stage a un co.co.co? Cosa significano tutte queste sigle? Vediamo di fare un po’ di chiarezza nella giungla dei contratti.
Tra precarietà e contratti a termine – Il contratto a tempo indeterminato è quello che prevede dopo un periodo di prova, l’assunzione senza scadenza. Purtroppo però i numeri parlano chiaro: il tempo determinato, cioè a scadenza, è quello più diffuso in Italia. E la maggior parte dei giovani che iniziano ad affacciarsi al mondo del lavoro, iniziano ben presto a conoscere la parola ‘precarietà’. Non è un caso che la riforma Fornero puntasse all’incentivazione delle assunzioni a tempo indeterminato (con scarsi risultati, purtroppo) e alla riduzione di questa ‘scappatoie’ che non facevano altro che aumentare l’incertezza lavorativa dei giovani.
Contratti formativi – Non tenendo in considerazione il tirocinio, meglio noto come stage, che non è considerato una prestazione di lavoro, ma solo formativa, un contratto lavorativo formativo, cioè che alterna studio e lavoro, è quello dell’apprendistato. Ve ne abbiamo già parlato in questo articolo.
C’è quello per l’espletamento del diritto-dovere d’istruzione e formazione, che consente di conseguire una qualifica professionale ed è diretto ai più giovani, in particolare agli adolescenti che abbiano compiuto 15 anni (prevalentemente la fascia d’età tra i 15 e i 18 anni). C’è poi quello professionalizzante che consente di ottenere una qualifica attraverso una formazione sul lavoro e un apprendimento tecnico-professionale. Può durare fino a 6 anni. In pratica si certifica così che il giovane lavoratore stia imparando sul campo un mestiere. Infine c’è l’apprendistato di alta formazione, rivolto a chi vuole conseguire un dottorato o un master e intanto lavora. Per entrambi il limite di età e fino ai 29 anni.
Contratti flessibili – Si tratta di tutti quei contratti a termine: il principale è il tempo determinato, ma poi si inseriscono alcune ‘varianti sul tema’ che complicano la comprensione spesso sia del lavoratore sia del titolare. Come quello di somministrazione, usato spesso dalle Agenzie per il lavoro, che può essere sia determinato che indeterminato, o come quello ‘a chiamata’ (che si può stipulare per meno di 400 giorni lavorativi in tre anni) che permette al giovane di recarsi sul posto di lavoro solo quando, appunto, chiamato dal titolare. E’ un contratto di solito stipulato per le commesse o i baristi, mestieri che si basano molto sulla domanda del mercato. Per esempio è noto che sotto le festività natalizie molti negozi assumano del personale che li aiuti nelle vendite. Sia il contratto a tempo determinato che quello a in somministrazione (ex interinale) sono rapporti di lavoro dipendente e prevedono tutte le tutele tipiche di questa tipologia contrattuale. Parliamo, in questi casi, di flessibilità positiva.
Il contratto a tempo determinato tradizionale ha una ‘data di scadenza’ fissata entro un massimo di 36 mesi, anche se in alcuni casi particolari, come nei settori del turismo per esempio, può durare di più. Per molti esperti, che rilevano come la flessibilità sia una prerogativa dei molti giovani a inizio carriera, questa modalità potrebbe incentivare il lavoratore a migliorarsi di continuo fino all’acquisizione di quelle capacità professionali che lo spingono a diventare ‘imprenditore di se stesso’.
Il problema sono quei contratti flessibili tipici del lavoro autonomo che in realtà, in molti casi, servono a mascherare una forma di lavoro subordinato, cioè di dipendenza, senza però le maggiori garanzie di quest’ultimo. Di seguito vi spieghiamo meglio.
Contratti parasubordinati – Sono i cosiddetti co.co.pro, ossia i contratti a progetto e i co.co.co, in contratti di collaborazione coordinata e continuativa (oggi molto meno diffusi e limitati solo in alcuni casi) che spesso, però, sono scelti per mascherare un vero rapporto di lavoro dipendente, ma di serie B.
Mentre i co.co.pro. (collaboratori a progetto) si caratterizzano per avere un obiettivo (progetto appunto) che deve essere portato a termine in un certo periodo, i co.co.co (collaboratori coordinati e continuativi) rappresentano una categoria intermedia fra il lavoro autonomo ed il lavoro dipendente. Formalmente sono forme contrattuali che regolano un rapporto di lavoro autonomo, ma di fatto nei casi di abuso, vengono utilizzati per “coprire” lavori da dipendente in quanto funzionalmente inseriti nell’organizzazione aziendale.
C’è poi anche il contratto ‘occasionale’ (che può essere stipulato se non si supera un compenso superiore complessivo di 5mila euro all’anno) che ha il vantaggio di essere esente da ogni imposizione fiscale, ma per il lavoratore significa non avere diritto a contributi previdenziali, né ferie, permessi o TFR. Anche qui, si tratta di una forma legittima se utilizzata da un lavoratore autonomo vero e per specifiche tipologie di prestazioni professionali, illegittima se serve a coprire un rapporto di lavoro subordinato.
I buoni lavoro – Infine ci sono i cosiddetti voucher, detti anche buoni lavoro, del valore di 10 euro lordi per ogni ora di lavoro, e che vengono utilizzati soprattutto per i cosiddetti “lavoretti” e lavori puramente occasionali. I voucher hanno subito diverse modifiche normative in questi anni, compreso l’intervento della legge Fornero che ha stabilito i soggetti che possono ricorrere al voucher: i pensionati, gli studenti tra i 16 e 25 e nei periodi di vacanza, disoccupati e cassintegrati, i lavoratori in part time, i lavoratori extracomunitari. Non può essere utilizzato se si ha un rapporto di lavoro subordinato con lo stesso datore di lavoro. Possono essere utilizzati anche dai disoccupati senza che questo comporti la conseguenze sulla stato di disoccupazione. I buoni lavoro possono essere utilizzati per qualsiasi tipo di lavoro e in tutti gli ambiti produttivi, con eccezione per il lavoro agricolo che ha, invece, alcuni limiti nell’utilizzo. Il limite economico massimo per l’utilizzo di questo contratto è di 5 mila euro. Per chi percepisci un assegno di disoccupazione, invece, il limite è di 3.000 euro.
Lavoro autonomo – E’ la prestazione del libero professionista, il lavoro autonomo per eccellenza (opposto al concetto di subordinato). Si verifica quando si compie, a prezzo di un corrispettivo, un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincoli di subordinazione nei confronti del committente. Per questo necessita dell’apertura della partita Iva. Rientrano in questa categoria anche i lavoratori di tipo manuale come commercianti, artigiani, agricoltori e allevatori.
A differenza del lavoratore subordinato, il lavoratore autonomo non si obbliga a mettere direttamente a disposizione la propria forza lavoro per un determinato tempo in un determinato luogo, ma garantisce al committente del lavoro il raggiungimento di determinati risultati con piena discrezionalità circa il tempo, il luogo e le modalità della prestazione. Da un punto di vista fiscale però l’onore contributivo è tutto a carico del professionista.
In Italia ci sono circa 5 milioni di partite Iva. In questo caso, le problematiche sono due. Da un lato esiste un esercito di legittimi lavoratori autonomi con partita Iva che spesso, però, non hanno un elevato livello di reddito e soprattutto, rispetto al lavoro dipendente, non hanno nessuna forma di tutela se rimangono senza lavoro, come l’indennità di disoccupazione per intenderci. L’altro problema, invece, riguarda le cosiddette “finte partite Iva”, ossia quei rapporti di lavoro regolati da una partita Iva ma che in realtà nascondono un rapporto di lavoro a tutti gli effetti subordinato. Anche in questo caso la riforma Fornero è intervenuta, suscitando anche pareri contrastanti, con una serie di misure per cercare di arginare questo malcostume italiano.