Settimana corta, riduzione degli orari di lavoro, reale produttività, aumento dell’occupazione: sono tutte parole chiave di una fantomatica ripresa o quantomeno di quel periodo dell’anno che stiamo vivendo, settembre, che da molti è considerato un vero e proprio capodanno. E che, causa Covid-19, in questo 2020 è diverso da tutti gli altri vissuti in passato: c’è un lockdown in mezzo, c’è una crisi economica maggiormente evidenziata, c’è lo spettro della cassa integrazione che aleggia in tutta Italia e un divieto ai licenziamenti per causa economica fino alla fine dell’anno solare.
Riduzione del lavoro a 4 giorni a settimana. Ed ecco che si ripropone un tema neanche tanto nuovo: ridurre i giorni di lavoro e passare dai famosi 5 giorni a settimana a 4. Un tema, non originale come dicevamo, ma che di fatto il sapore di novità un po’ ce l’ha perché negli anni passati sì, si parlava di smart working, ma in Italia lo avevano sperimentato davvero in pochi mentre è con il lockdown e le misure anti-Covid che si è conosciuta un’impennata anche se spesso si tende a confonderlo con il remote working.
Il dibattito parte dalla Finlandia. Tornando ai giorni nostri, la discussione si è nuovamente accesa grazie alla premier finlandese Sanna Marin che il 24 agosto durante il discorso di apertura dell’assemblea del partito di cui fa parte, l’Sdp, ha detto: “Un modo per distribuire equamente la ricchezza è migliorare le condizioni dei lavoratori e ridurre il numero di ore lavorate senza che vengano diminuiti i salari. Quando in alcune aziende è stato provato un orario di lavoro più breve, la produttività è migliorata così tanto che, per esempio, le sei ore di lavoro (invece di 8, ndr) possono essere pagate, senza problemi con uno stipendio equivalente a 7 – 8 ore di lavoro”. Ma non solo questo, la premier finlandese ha aggiunto che dal punto di vista della società “la riduzione dell’orario di lavoro si è riflessa, tra l’altro, in un miglioramento del benessere del lavoro e in una riduzione dei congedi per la malattia”.
A dire il vero, Sanna Marin aveva accennato all’argomento anche lo scorso anno, ma causa Covid, questo è diventato attuale con l’idea che se “ci sono certamente diversi motivi per cui ridurre l’orario di lavoro sarebbe impegnativo o, secondo alcuni, impossibile. Se ci sono certamente delle sfide da risolvere, ciò non significa che non si possano fissare obiettivi audaci”. Prossimo obiettivo, secondo Marin, sarà dunque “creare una visione e chiara e passi concreti su come la Finlandia può passare a orari di lavoro più brevi e i dipendenti finlandesi verso una vita lavorativa migliore”.
Cosa succede nel resto d’Europa. Questa la proposta della Finlandia, ma cosa succede negli altri paesi europei? In Germania, stando a quanto riporta l’Agi, ad accendere i riflettori sulla riduzione dell’orario di lavoro è stato Joerg Hoffmann, presidente del sindacato dei metalmeccanici IG Metall, parlando da diretto interessato in un settore, quello dell’auto che come sappiamo, è piuttosto in crisi. Hoffmann ha infatti proposto la riduzione, sebbene con retribuzioni parziali, per dare una spinta all’occupazione e rilanciare il settore. I sindacati tedeschi si sarebbero spinti oltre parlando di 30 ore a settimana senza riduzione di salario, ma questa proposta non piace molto agli imprenditori tedeschi che vorrebbero avere più libertà di licenziare. Il dibattito in Germania è dunque ancora aperto. Ma mentre nello stato della Merkel se ne discute – con la premier che vuole che siano i sindacati a decidere – in altre parti d’Europa ci sono esempi positivi di orari settimanali ridotti.
In Olanda si lavora circa 29 ore settimanali (anche se si può arrivare a 36) e 4 giorni su 5, in Norvegia 33 ore a settimana e in Danimarca diversi contratti ne propongono anche 33 a settimana. Andando un po’ più a Nord, la situazione svedese è davvero una best practise: dopo l’esperimento del comune di Göteborg, in cui alcuni dipendenti hanno lavorato 6 ore e altri 8 (senza perdere la produttività), l’orario ridotto è una realtà. Toyota organizza turni da 6 ore e la Filimundus, attiva nel settore dei giochi per bambini, lo fa già da tempo.
Il caso del Perpetual Guardian e il movimento 4 Day Week Global. Tra i promotori della riduzione dell’orario di lavoro, andando dall’altra parte del mondo, c’è poi Andrew Barnes che non solo è il CEO di Perpetual Guardian, società di gestione finanziaria in Nuova Zelanda con 240 dipendenti, ma è anche fondatore del movimento 4 Day Week Global, per far sì che la riduzione a 4 giorni a settimana sia non solo un tentativo, ma diffusa in tutto il mondo. Barnes non diffonde solo idee, ma ha messo tutto in pratica: i suoi dipendenti lavorano sì 4 giorni a settimana, senza riduzione di stipendio, ma sono loro a scegliere quando e in quali orari.
Come si legge sul sito del movimento, tutto è nato nel marzo del 2018, da una prova di 8 settimane per testare, oltre all’orario, la produttività, la motivazione e i risultati concedendo a ogni persona un giorno libero retribuito a settimana e senza variare lo stipendio. Ovviamente, chiedendo ai lavoratori che ciò non inficiasse la produzione. La reazione del personale è ovviamente stata di sorpresa, come racconta lo stesso Barnes che conduce questo progetto insieme a Charlotte Lockhart, CEO di 4 Day Week Global: “Quando abbiamo iniziato, la reazione iniziale di tutti è stata ‘Come farò mai il mio lavoro in 4 giorni anziché 5”?. È stato dimostrato che non solo possono farlo in 4 giorni, ma possono farlo meglio”. Risultato? Produttività aumentata del 35% grazie al fatto che, come sostengono i fondatori del movimento, se le persone sono coinvolge nel processo sono sicuramente più attive e anche a causa del fatto che tutti non siamo produttivi per 8 ore al giorno, ma secondo Barnes per 3 ore al giorno, per il resto si perde tempo.
Barnes, che è stato ospite al TEDx di Auckland, ha raccontato la sua storia nel libro “The 4 day book” e sul sito del movimento dà anche una serie di indicazioni come quello di incoraggiare i dipendenti a pensare a come lavorare in modo diverso e incoraggiarli a trovare la propria misura della produttività. O ancora stabilire chiari obiettivi aziendali e di squadra.
E in Italia? Qualche azienda che lavora 30 ore a settimana, come Zupit che sviluppa software in Trentino Alto Adige c’è, anche se nel nostro Paese il dibattito è più che mai aperto con il ministro Nunzia Catalfo che di recente ha rilanciato la riduzione dell’orario di lavoro insieme alla staffetta generazionale, ma che deve fare i conti sia con i fondi da trovare che con la stessa Confindustria.
Sulla riduzione dell’orario peraltro, nel maggio scorso, si era pronunciato anche Maurizio Sacconi, ex ministro del lavoro, oggi Chairman ADAPT Steering Committee, parlando dell’importanza della formazione ma più in generale anche a causa della “disordinata esperienza del lavoro da casa” sul fatto che “proprio le intese individuali e aziendali possono progressivamente relativizzare l’orario di lavoro man mano che si definiscono modalità efficienti di assegnazione al collaboratore di obiettivi e di controllo del loro conseguimento. L’agilità è implicita nel lavoro moderno nel senso che il vincolo spazio-temporale viene sostituito da quello del risultato, qualunque sia la tipologia contrattuale. Lo stesso salario cambierà struttura al punto da perdere la componente dello straordinario sostituendola con un più marcato collegamento con indicatori di risultato, di produttività, di professionalità”.