Ci risiamo. È oramai un tormentone e come tale a volte ci si dimentica perché si è iniziato a discutere del tema. Occorre chiarire qual è la finalità dell’idea di “ridurre l’orario di lavoro”; come si intende realizzarla e quali possono essere i costi diretti e indiretti connessi a tale operazione.
Per l’Italia la finalità è una ed unica: creare occupazione! Ed allora, sarebbe onesto e coerente che si smettesse di annoverare fra i sostenitori nonché esempi da seguire nazioni quali la Finlandia, l’Olanda e così via; in quei paesi non vi è un tema occupazionale, in quei paesi il part-time non è ritenuto una eccezione, un minus rispetto al full time e, soprattutto, non è un limite alla carriera e non riguarda solo le donne e le mamme. Quelle nazioni hanno una storia diversa, un sistema sociale ed economico non paragonabile al nostro ed una cultura totalmente diversa, forse solo loro possono ritenersi veri seguaci di Keynes ed Aristotele quando immaginano il recupero del “tempo libero” come risultato del “progresso” (tecnologico ora…). In Italia non si sta ragionando intorno alla “creazione di tempo libero per lo sviluppo delle individualità” bensì molto più semplicemente ed allarmante, quale sistema per creare occupazione. Ma non è tutto. L’idea peggiore è quella che realizza i timori che le persone mediamente intelligenti avevano per fare questa “pazzia” utilizziamo il prestito UE
Come lo andremo a realizzare? Mantenendo le retribuzioni invariate, modalità che sarà possibile ovviamente solo in base al principio sopra enunciato, ovvero che dovrà intervenire qualcuno (la UE) per sostenere finanziariamente questo progetto. Già questa considerazione sarebbe sufficiente per far comprendere che trattasi di un progetto fallimentare, senza alcuna logica programmatica, destinato a finire con l’”aiuto” ed a diventare ancora un’altra voce di “debito” per le generazioni future. Chiariamo ed anticipiamo la solita critica populista: non è un provvedimento impensabile, impossibile da realizzare, ma dipende dalla concreta situazione del paese che la vuole mettere in atto. Proprio questa considerazione di ordine generale ha fatto sì che anche nelle più avanzate democrazie del nord Europa non vi fosse una norma “calata dall’alto” generale e vincolante per tutte le imprese. I più attenti osservatori hanno subito rilevato che il tema centrale è la produttività di un’economia strettamente e direttamente connessa al “tempo libero” che potrebbe creare. Altro tema è quello dell’incremento dei salari derivante dalla riduzione degli orari a parità di stipendio; qui il tema non è se tutto ciò sia giusto o no, bensì se le imprese se lo potranno permettere, e quindi l’idea di un “sostegno UE” per il caso negativo ancora una volta certifica l’erroneità del progetto.
In Francia il caso delle “35 ore” è stato fallimentare. In Germania il Governo ha aperto al dialogo con il sindacato ma sul presupposto di “retribuzioni parziali”. Cosa non funziona nel nostro bel Paese? Devo dire che questa volta la risposta è semplice: in Italia non si tenta di risolvere nulla, si aspettano prestiti, aiuti che – come tutti i meno attenti lettori – ci dimentichiamo di dover restituire buttando la palla avanti a carico di coloro ai quali dichiariamo voler dare aiuto. Il tema occupazione affrontato con la “riduzione di orario” sa tanto di “aggiungi un posto a tavola”, “dove si mangia in tre si mangia anche in quattro”; non ci si rende conto però che se la torta è sempre la stessa non si è “creato un bel niente”. La creazione dell’occupazione attiene alle politiche economiche, industriali e di sviluppo di un Paese, non agli sgravi contributivi o prestiti a lungo termine. Cerchiamo di risolvere una volta per tutte il problema della “produttività” del nostro Paese perché la domanda più importante dovrebbe essere: se utilizziamo gli aiuti per sostenere l’incapacità dello Stato di fornire la giusta assistenza senza creare i presupposti per l’aumento della produttività del Paese, i finanziamenti come li restituiamo?