La diatriba del buono pasto per i lavoratori in smart working continua a tenere banco. È il turno, notizia di questi giorni, del tribunale del lavoro di Venezia intervenuto su un ricorso presentato dalla Cgil contro l’amministrazione del Comune di Venezia dando ragione a quest’ultimo. Il sindacato, infatti, ha agito contro la decisione del Comune di togliere ai dipendenti in smart working il buono pasto e la magistratura del lavoro ha ritenuto tale scelta legittima. Il tema è controverso e va letto in tutti i suoi risvolti. Sgombriamo subito il tavolo da un falso problema e da un tema inesistente: il buono pasto non è un diritto del lavoratore, ma un benefit riconosciuto dal datore di lavoro o il risultato di un accordo sindacale. L’intervento del tribunale del lavoro in questione, quindi, non può che ribadire un concetto legale inequivocabile. Dare risalto a questo aspetto della sentenza è un esercizio parziale. Il punto vero della questione va spostato nell’accordo sindacale o nell’atto formale che riconosce il buono pasto ai dipendenti, a prescindere se lavorino in ufficio o in modalità da remoto. È tutta qui la querelle. In sostanza, nella vicenda di merito, il tribunale di Venezia ha osservato che il contratto collettivo nazionale di lavoro applicato dal Comune subordina il riconoscimento del buono pasto al rispetto di determinati vincoli di orario, che non sono necessariamente osservati quando si lavora in modalità agile. Morale: i contratti collettivi o eventuali accordi integrativi, per evitare derive giudiziarie, vanno scritti bene. Sono fuorvianti, quindi, titoli che trattano la vicenda generalizzando il concetto fino a interpretare in modo più che forzato questa sentenza come una sorta di pietra tombale sul buono pasto per i dipendenti pubblici in smart working. Semplicemente non è così.
“Tecnicamente nella sentenza del tribunale di Venezia, che pure è opinabile in diversi passaggi, non c’è nessuna novità. Qui va scisso il livello legale da quello contrattuale. Il tribunale dice che non c’è in esito al contratto collettivo un diritto al buono pasto. Per cui se l’amministrazione decide di non riconoscerlo è legittimata a farlo, senza dover necessariamente confrontarsi con il sindacato (in fin dei conti sta applicando un contratto firmato dallo stesso sindacato) – spiega Emmanuele Massagli, Presidente di ANSEB, l’associazione che rappresenta le principali società di emissione dei buoni pasto”.
I veri nodi, alla fin fine riguardano l’interpretazione di due concetti giuridici dirimenti e che andrebbero specificati meglio dal legislatore. Il primo concetto è quello di trattamento complessivo. “La legge è abbastanza chiara: c’è l’obbligo del datore di lavoro di riconoscere al lavoratore lo stesso trattamento complessivo del lavoratore dipendente. In realtà il concetto di “complessivo” – precisa Massagli– è ambiguo e presta il fianco a più letture. Semplificando, alcune aziende danno questa interpretazione: se ti riconosco il buono pasto quando vieni in azienda, quando rimani a casa e non hai costi per venire in azienda posso toglierti il buono pasto senza arrecarti danno economico “complessivo”. Questa è una forzatura opportunistica della norma. Il legislatore potrebbe intervenire per chiarire la questione. In assenza di disposizioni interpretative, la partita è tutta in mano agli accordi tra aziende e sindacati. Se c’è l’obbligo del buono pasto a seguito di una contrattazione integrativa o di un regolamento, allora tale obbligo rimane a prescindere. In questo momento alcune aziende, in virtù di questa interpretazione della norma, stanno procedendo unilateralmente a non riconoscere il buono pasto ai dipendenti in smart working, nonostante gli integrativi firmati non permettano loro di farlo. Questo è inadempimento contrattuale. Al contrario, se nell’accordo o nel regolamento è prevista l’esclusione dei lavoratori agili, allora l’azienda può agire in questo senso senza temere alcuna contestazione.
L’altro concetto chiave su cui si confrontano più interpretazioni è la tipologia del benefit del buono pasto. “Su questo tema il giudice di Venezia fa una grande confusione, arrivando a fare delle dichiarazioni discutibili anche giuridicamente” – continua il Presidente di ANSEB -. Se il buono pasto ha lo scopo di sostituire la mensa, perché l’azienda dovrebbe riconoscerlo ai dipendenti che lavorano da remoto? “Perché non è più solo quello lo scopo, dal 2017 anche legislativamente (da molto prima nella sostanza). La riforma del Codice degli Appalti del 2016 ha comportato anche l’approvazione di un decreto del Ministero dello Sviluppo Economico che ha ridisegnato il funzionamento del buono pasto. Tra le novità, una delle più rilevanti fu la possibilità di cumulare nell’utilizzo fino a 8 buoni pasto per giornata. Tale novità fu spiegata dallo stesso legislatore come una soluzione per permettere anche a chi preferisce durante la pausa pranzo di consumare un pasto preparato a casa (per motivi di allergie, di costi, di salute, o altro) di vedersi riconosciuto il costo di quel pasto. Così facendo è stato definitivamente superato il rapporto tra consumo del buono pasto e luogo di lavoro. Perché allora non riconoscerlo a chi il pranzo lo consuma a casa o altrove, essendo un lavoratore agile?”
Per saperne di più:
Smart working e buoni pasto. La fretta ha creato un pasticcio?
Smart working e buoni pasto: la questione adesso riguarda anche i lavoratori in cassa integrazione.