Il Decreto Rilancio lo ha previsto fino al 31 luglio e in particolare per i genitori di ragazzi fino ai 14 anni, ma sono diverse le aziende che lo porteranno avanti fino a settembre. Parliamo dello smart working, uno dei grandi protagonisti dell’emergenza Covid così come della fase 2 e probabilmente della fase 3.
Il piano Colao. Anche alla luce del cosiddetto piano Colao che spinge ancora di più sull’uso di questa modalità di lavoro, sia nel settore pubblico che in quello privato. Certo, le precisazioni sono doverose anche perché alla luce dell’emergenza si è erroneamente scambiato lo smart working con il lavoro da casa, quando il primo, che possiamo definire anche lavoro agile, ha caratteristiche molto diverse dal lavoro all’interno della propria abitazione cuasa rischio contagio. Si chiama infatti “smart” perché può essere svolto praticamente ovunque e puntando più sugli obiettivi che sugli orari o sul luogo di lavoro. Ma procediamo per ordine e vediamo sia cosa si intende davvero per smart working, quali sono le linee guida alle quali bisognerebbe attenersi secondo il sindacato Fim Cisl e cosa potrebbe succedere dopo il 31 luglio.
Lavoro agile e smart working: diversa gestione di spazio e tempo. Intanto partiamo con “la definizione di lavoro agile” che, come si legge nelle linee guida del sindacato, “è contenuta nella legge 81/2017 che offre un riferimento imprescindibile per individuare lo smart working o il lavoro agile. Il lavoro agile è definito come lo svolgimento della prestazione di lavoro subordinato, con una diversa gestione dello spazio e del tempo di lavoro e con un mix di presenza nella sede abituale di lavoro e in sede esterna.
Lavorare da hub. A proposito di sede esterna va prevista la possibilità di lavoro anche da hub o comunque da sede diversa dai locali aziendali, non riducendo il tutto al solo lavoro da casa. Anche in questo, oltre alla non prevalenza e alla mancanza di una sede fissa si differenzia dal telelavoro o dal semplice lavoro da remoto”. Questa è sicuramente una premessa importante ed è anche il motivo per cui si sente la necessità di definirne gli aspetti cruciali. Se infatti per molti lavoratori durante l’emergenza Covid la casa era l’unico luogo deputato, non è però questa a far sì che una modalità di lavoro possa essere definita agile, tutt’altro.
Le aziende e lo smart working durante l’emergenza. In questo periodo di emergenza, è interessante una ricerca sullo smart working condotta da ANRA (Associazione Nazionale dei Risk Manager e Responsabili Assicurazioni aziendali) e Aon nella prima metà di maggio – quindi ultimo periodo Fase 1, quasi fase 2 – che ha coinvolto 841 persone,di cui il 65,3% uomini e il 33,9% donne, che lavorano in vari settori, tra questi il più presente è quello di finanza, banche e assicurazioni (48,04%), seguito da consulenza e servizi professionali, intermediazione assicurativa e così via. I lavoratori vengono da aziende di tutte le dimensioni sia grandi che medio-piccole. Dalla ricerca è emerso che ad applicare lo smart working prima dell’emergenza era il 37,5% mentre il 38,3% non lo applicava in nessun modo, il 24,3% sì ma solo parzialmente. C’è da dire che la maggior parte degli intervistati risiede in Lombardia quindi queste percentuali cambiano a seconda anche delle regioni di provenienza.
Un’introduzione recente e un modo veloce per reagire. In ogni caso, quello che è emerso che lo smart working è un’introduzione recente: le aziende che l’hanno introdotto da meno di 3 anni sono il 71,9% (di cui il 35,1% da meno di un anno). Rilevante poi un 15,4% di imprese che ancora non l’ha introdotto, mentre è comunque da notare che un 7,1% lo applica da 4-6 anni, l’1,7% da 6-10 anni, e il 3,8% da oltre 10 anni. Quanto a quello che è successo durante il lock down, si vede come sia stata l’unica modalità operativa per il 79,8% di chi ha risposto. Insieme a un 18,7% che ha continuato lavorando solo parzialmente da remoto, Solo l’1,5% dei professionisti ha sospeso l’attività.
“In generale” si legge nella ricerca “le aziende sembrano aver reagito velocemente all’emergenza. Il 52,6% si è convertita allo smart working immediatamente, il 29,4% in meno di una settimana. Le percentuali scendono in modo inversamente proporzionale al tempo impiegato per la riconversione: il 13,2% ha impiegato tra due e tre settimane per completare la transizione, il 3,2% fra due e tre settimane, lo 0,7% un mese e lo 0,9% non aveva a metà maggio ancora completato la conversione.
La necessità di definire i criteri di attuazione così come l’adesione e il recesso. Alla luce di tutto questo e del fatto che il Piano Colao evidenzia la necessità di monitorare l’andamento dello smart working e valorizzarne sempre più l’uso sia nella PA che nel privato implementando anche la normativa, sono molto interessanti le linee guida del sindacato Fim Cisl di cui vi parlavamo. Nelle quali si legge, infatti, che sarebbe necessario definire bene i criteri di attuazione dello smart working così come i destinatari e anche in base a cosa verranno selezionate le richieste pervenute: esigenze di salute, di cura, ma anche distanza dal luogo di lavoro. Così come vanno definite le condizioni tecniche e organizzative, le aree, le funzioni, inquadramento professionale, mansioni, ruolo, eventuali incentivi economici.
È altrettanto importante stabilire le procedure di adesione e di recesso dallo smart working che appunto non dovrebbe durare per sempre e a prescindere. Nelle linee guida si legge che “è opportuno definire in sede di accordo aziendale, le procedure di presentazione delle richieste per l’adozione delle modalità di lavoro agile, a cui seguirà la stipulazione dell’accordo individuale”. Così come è importante definire il recesso ossia quali siano le ipotesi di giustificato motivo che consentono di porre fine a questa modalità di lavoro agile.
Da parte del datore di lavoro, il giustificato motivo può essere per esempio la fine della sperimentazione, la modifica delle mansioni che fa venir meno il presupposto per lo svolgimento della prestazione esterna; esigenze sopravvenute relative alla prestazione in presenza, eventuali ragioni disciplinari per questo sarebbe bene confrontarti anche con le RSU, mentre da parte del lavoratore possono essere problemi di gestione del work life balance. Il sindacato precisa che sarebbe opportuno anche prevedere un preavviso, anziché recedere da questa modalità o aderire dall’oggi al domani.
Le modalità di svolgimento e il diritto alla disconnessione. Quanto alla modalità di svolgimento, l’accordo aziendale dovrebbe prevedere come programmare e pianificare le attività (calendario fisso, richiesta singola, pianificazione settimanale) e quantificare la prestazione di lavoro svolta all’esterno.
“L’orario va regolamento” si legge nelle linee guida “con riferimento al Ccnl e/o alla eventuale contrattazione aziendale, compreso i limiti massimi, considerando anche le modalità e l’esercizio del diritto dei permessi retribuiti (PAR, visite medica ecc.) durante l’attività svolta fuori dal contesto aziendale. Anche la prestazione eccedente il normale orario di lavoro (straordinario) dovrà trovare una procedura adeguata per essere riconosciuta quando effettivamente svolta”. A differenza di come ha rivelato un sondaggio di LinkedIn, lavorare in smart working non dovrebbe voler dire lavorare di più, ma stabilire un’apposita autorizzazione alla prestazione straordinaria magari avvalendosi di tecnologie “opportune per la registrazione dei tempi di lavoro” Anche per garantire il diritto alla disconnessione.
Attrezzature per svolgere il lavoro e hub esterni. Quanto alle attrezzature per svolgere il proprio lavoro, nelle linee guida si legge che la contrattazione aziendale può definire anche l’insieme degli strumenti (compresa la connessione Internet), le regole sulla conservazione e sulla manutenzione/riparazione sull’uso di strumentazione ergonomica e a norma antinfortunistica (cuffie, schermi, sedie ergonomiche ecc.). E questo sia con una dotazione da parte dell’azienda o fornendo al lavoratore dei buoni spesa.
Quanto alle attrezzature, ci sono alcuni accordi come quello bancario che le prevedono, mentre nel caso del telelavoro – che ricordiamo non è smart working, il datore di lavoro si deve occupare gli strumenti e dell’allestimento della postazione. Anche perché in caso di infortunio, la responsabilità del datore di lavoro è più estesa.
Quanto ai luoghi, come smart work hub o coworking, per dare l’opportunità di dare adeguati spazi dove svolgere la propria attività, garantendo aspetti di salute e sicurezza anche questi possono essere argomento di contrattazione specifici per lo smart working. Anche visto e considerato che l’obiettivo del lavoro agile è di ottenere benefici legati “alla riduzione dei tempi e dei costi di trasferimento del lavoratore, con tutto ciò che questo comporta anche, ma non solo, in termini di sostenibilità ambientale; aumento della motivazione e della soddisfazione; potenziamento delle capacità collaborative nel team di lavoro”.