Lo smart working o lavoro agile è stata una delle prime misure promosse dal Governo Conte per affrontare le ricadute lavorative dell’emergenza coronavirus e del conseguente lockdown. In sostanza, tutte le aziende e le realtà lavorative che possono riorganizzare le proprie attività ricorrendo al lavoro da casa, di fatto, devono farlo e possono continuare a lavorare attraverso lo smart working. Il decreto del Governo per agevolare l’immediato ricorso al lavoro agile ha introdotto alcune deroghe alla normativa attuale, che prevede tra le altre cose, che il ricorso allo smart working avvenga tramite accordo volontario tra azienda e lavoratore. Vista l’emergenza che tutti conosciamo questo vincolo è stato sospeso dal provvedimento e le aziende hanno potuto ricorrere in modo unilaterale e senza accordo con i dipendenti allo smart working.
La necessità di fare in fretta, tuttavia, ha lasciato scoperti alcuni punti. Tra questi la questione dei buoni pasto. Ricordiamo che il buono pasto non è un diritto ma un benefit che decide l’azienda di introdurre o meno. Secondo la normativa tutti i lavoratori che usufruiscono di un buono pasto possono conservare il ticket anche se lavorano in smart working, salvo accordo sindacale aziendale che può rimuovere tale possibilità. Quindi, solo se c’è un accordo sindacale in tal senso i lavoratori in smart working possono non percepire i buoni pasto. Cos’è successo dopo il decreto del Governo sullo smart working che di fatto ha obbligato i lavoratori a stare a casa? Diverse aziende, a quanto si apprende, che stanno lavorando e non hanno sospeso le attività, in modo unilaterale e senza accordi sindacali hanno (arbitrariamente?) sospeso i buoni pasto a tutti i lavoratori in smart working (e che avevano il buono pasto quando lavoravo in azienda). Il punto, infatti, non riguarda le aziende che sono al momento ferme, ma quelle che stanno lavorando. Probabilmente ci troviamo di fronte una beffa ai danni di alcuni lavoratori forse non giustificata. In sostanza alcune aziende hanno deciso di sospendere i buoni pasto senza l’accordo con i sindacati.
Rispetto al pubblico impiego, per esempio, una circolare del Ministero della Pubblica Amministrazione dice chiaramente che la questione buoni pasto e smart working è rimandata alla trattativa tra le parti. “Con particolare riferimento – recita la circolare – alla tematica dei buoni pasto, si puntualizza che il personale in smart working non ha un automatico diritto al buono pasto e che ciascuna Pubblica Amministrazione assume le determinazioni di competenza in materia, previo confronto con le organizzazioni sindacali”. E per il settore privato? “Per il privato è tutto demandato o un atto unilaterale dell’azienda o a un contratto – spiega Emmanuele Massagli, Presidente ANSEB – Associazione Nazionale delle Società di Emissione di Buoni pasto – . Se il buono pasto era riconosciuto prima della emergenza in esito a una decisione dell’azienda, è adesso facoltà della stessa sospenderlo. E’ però possibile anche il contrario: se prima non era riconosciuto, l’azienda può senza problemi riconoscerlo ora, per concedere ai propri dipendenti un benefit più economico di un aumento salariale o un premio, ma comunque molto apprezzato. Se invece i buoni pasto erano riconosciuti in esito a un accordo sindacale, a quell’accordo l’azienda deve attenersi anche ora, senza poter disapplicarlo unilateralmente. Potrà essere sostituito solo da nuovo contratto/accordo collettivo, accettato dai sindacati”.
Il nodo, in realtà non è normativo, ossia non dipende da come il Governo ha scritto la norma, conferma Massagli, ma è economico. “Molte aziende, comprensibilmente in difficoltà anche se stanno continuando ad operare con il lavoro agile, provano a tagliare tutti i costi tagliabili. Il problema è che se il buono pasto è riconosciuto per accordo, non è un costo unilateralmente tagliabile”. La sospensione unilaterale del buono pasto, poi, da parte delle aziende seppur comprensibile dal punto di vista del poco tempo in cui tutto si è concretizzato, comunque non si giustifica dal punto di vista della correttezza formale. “Il fatto che non vi fosse tempo non giustifica il non averlo fatto. Normativamente è una forzatura, – precisa il Presidente dell’ANSEB – tanto più dopo la riforma del buono pasto del 2017 che, per volere del Ministero dello Sviluppo Economico, ha riconosciuto al buono pasto la natura di benefit dovuto anche a chi si porta il pranzo da casa, permettendone l’utilizzo anche al supermercato per l’acquisto di quei beni alimentari utili alla preparazione del pranzo “al sacco” (da qui il superamento del divieto al cumulo, ora permesso fino a 8 buoni al giorno). Valeva per chi si portava il pranzo da casa, vale ancora oggi per chi, durante la giornata lavorativa, consuma necessariamente il pasto in casa. Non solo: i buoni pasto sono anche utili a ordinare il pranzo da quegli esercenti che effettuano le consegne a domicilio, nella speranza che a breve sia permesso anche l’asporto, come bar e ristoranti (giustamente) chiedono”.
Forse si potevano evitare forzature da parte di alcune aziende anche perché c’è il rischio contenzioso dietro l’angolo, e in questo periodo di tutto abbiamo bisogno tranne che di alimentare potenziali vertenze. “In momenti di crisi non sono i momenti della unilateralità e della forzatura. I datori di lavori, se vi sono problemi, – consiglia Massagli– ne parlino con i sindacati e coi dipendenti. Bene che le scelte siano prese insieme, perché siano stabili e non contestate (il non riconoscimento del buono può giustificare un contenzioso per inadempimento contrattuale). Magari si potrà valutare il taglio di altri costi meno incidenti sul reddito e sulla salute delle persone”.