La vicenda riguarda la richiesta di risarcimento danni da demansionamento, proposta da una lavoratrice che aveva prestato servizio per oltre trent’anni alle dipendenze di una società che opera nel settore radiotelevisivo.
La dipendente lavorava in qualità di “programmista regista”, inquadrata al “1° livello (classe A) quadro” del contratto collettivo di categoria. A seguito della soppressione (nel 2002) dell’ultimo programma da Lei ideato e curato, la lavoratrice veniva assegnata a mansioni che, pur riconducibili al medesimo livello contrattuale, erano in realtà riduttive e dequalificanti rispetto a quelle svolte in precedenza e che progressivamente avevano reso la stessa inattiva. Tale situazione si era protratta fino alla conclusione del rapporto di lavoro per raggiungimento dell’età pensionabile nel 2007.
Nel corso dei giudizi di merito, la Società si era difesa sostenendo che dal 2002 aveva provveduto ad una riorganizzazione della programmazione radiofonica, con il conseguente ridimensionamento delle rubriche ideate e curate dalla lavoratrice, fino alla definitiva cessazione.
La particolarità del caso sta in alcuni passaggi della sentenza e in particolare alla (mancata) valorizzazione del comportamento della lavoratrice successivo alla riorganizzazione ed alle valutazioni effettuate dai Giudici in relazione alla quantificazione dei danni. La lavoratrice era stata invitata a proporre nuovi programmi, ai quali la stessa non aveva poi aderito, proseguendo con la formulazione di proposte non in linea con la nuova programmazione e che, come tali, non erano state condivise e accettate dall’azienda. Da ciò era conseguito, di fatto, lo “svuotamento” degli incarichi e delle attività a lei assegnate.
Al termine dell’istruttoria, il giudice di primo grado aveva rilevato che – pur essendo emersa in corso di causa la sostanziale resistenza della dipendente, successivamente all’eliminazione dal palinsesto delle trasmissioni da lei ideate e affidate, a ricollocarsi in progetti con caratteristiche differenti o a formulare lei stessa nuovi progetti – la società non aveva “offerto la prova dell’assegnazione a mansioni, che sebbene diverse potessero essere considerate equivalenti a quelle in precedenza assolte” e compatibili con le competenze e conoscenze da lei maturate.
La lavoratrice era stata lasciata dall’azienda colpevolmente inattiva per un considerevole lasso di tempo e tale situazione – sempre secondo quanto accertato dal giudice – si era protratta fino al suo pensionamento, con conseguente demansionamento e riduzione della professionalità.
La Suprema Corte – chiamata a pronunciarsi a seguito del ricorso della società – ha confermato la decisione dei giudici di primo e secondo grado, accertando pertanto: la lunga e proficua esperienza alle dipendenze della società in qualità di programmista regista, la sua competenza nella ideazione, realizzazione e organizzazione di programmi radiofonici, il successivo demansionamento con progressiva destrutturazione degli incarichi e il conseguente danno alla sua professionalità. Lo stesso è reso evidente da un lato, dalla cancellazione dei programmi da lei curati e dall’altro, dalla forzosa inattività.
La Suprema Corte, nel caso di specie, ha altresì confermato la congruità del danno, riconosciuto in via equitativa, pari al 50% della retribuzione mensile per tutto il periodo di demansionamento negli anni tra il 2002 e il 2007.
La sentenza dei Giudici della Suprema Corte ha poi confermato l’impostazione della Corte d’Appello, che – utilizzando la prova per presunzioni – ha raggiunto il convincimento sul danno da demansionamento.
Com’è noto, le presunzioni sono le conseguenze che il Giudice trae da fatti noti (il demansionamento in questo caso) per giungere alla conoscenza – presunta appunto – di fatti ignoti (il danno nel nostro caso). In buona sostanza, la Corte ha rilevato che non v’era prova diretta del danno da demansionamento, ma ha dovuto ricorrere ai criteri sopra riferiti – gravità e lunga durata del demansionamento – per dedurre un danno rilevante, seppur calmierato dal comportamento non commendevole della lavoratrice.