Nella lotta ormai mondiale contro il nuovo Coronavirus c’è un paese che sembra esser riuscito ad individuare un piano di attacco vincente: la Corea del Sud. Quest’ultima, tra le nazioni più colpite – fatta eccezione della Cina – dell’area orientale del mondo, ad oggi conta infatti “solo” 75 morti su un totale di 8.325 persone contagiate. Un numero incoraggiante, soprattutto se confrontato – purtroppo – con i nostri dati: in Italia, infatti, quando il numero di positivi si aggirava intorno agli 8mila (7.985 al 9 marzo) si contavano già 463 vittime. Il successo coreano molto deve all’uso congiunto di test a tappeto, preparazione e trasparenza, ma c’è di più. In questa battaglia contro il tempo condotta da Seul a fare la differenza sembra essere il ricorso alla tecnologia, un’arma tanto potente quanto pericolosa, soprattutto se c’è in gioco la privacy degli utenti.
Un modello alternativo. Rispetto alla Cina e ai paesi occidentali, Seul ha scelto di combattere il Covid-19 a suo modo, sfruttando tutta l’esperienza maturata nel 2015, nella battaglia contro la Mers (la sindrome respiratoria acuta del Medio Oriente), epidemia che “provocò – riporta Agi – la morte di 38 persone e circa duecento contagi”. Così, quando nel mese di gennaio il nuovo Coronavirus ha bussato alle sue porte, la Corea del Sud ha da subito studiato un piano di attacco fatto di trasparenza e controllo capillare: stazioni mobili per il test, visite a domicilio, punti di controllo sulle strade e test dall’esecuzione quasi istantanea in grado di ridurre al minimo i rischi di contagio per gli operatori sanitari sono solo alcuni dei punti di questa strategia, ad oggi forse tra le più incoraggianti al mondo.
Ma il vero asso nella manica di Seul sembrerebbe essere il ricorso alla tecnologia e ad un uso strategico dei big data, messi a disposizione di tutti al fine di individuare tempestivamente i soggetti positivi, nonché i loro spostamenti e quindi i nuovi possibili contagi. A rendere possibile ha contribuito la creazione di app ad hoc, che hanno reso consultabili per tutti questa enorme quantità di dati, con evidenti rischi per la privacy dei cittadini. Una controindicazione che tuttavia non sembra molto preoccupare le autorità, concentrate piuttosto sui risultati positivi raggiunti. “A meno di sviluppi inaspettati – riferisce Agi – ci aspettiamo che questo trend guadagni slancio” ha infatti dichiarato fiducioso il presidente sud-coreano Moon Jae-in a proposito dell’andamento dell’epidemia registrato nel paese.
Sono diverse le app anti Covid-19 che i sud-coreani possono consultare per individuare le aree a rischio e quindi evitarle. Tra queste, Corona 100m permette agli utenti di conoscere la data in cui un paziente è risultato positivo al Coronavirus, i luoghi che ha frequentato, ma anche alcune informazioni “sensibili”, come il sesso, l’età o il paese di provenienza. Inoltre, grazie a Corona 100m ogni persona può anche sapere se nelle aree a lui vicine esistono altri casi di contagio. Queste applicazioni hanno quindi anche il vantaggio di permettere la chiusura delle sole aree infette. Abbiamo visto infatti come in Italia – e non solo – il nuovo Coronavirus sta avendo un terribile impatto anche dal punto di vista economico, conseguenza che accorgimenti come quelli sud-coreani potrebbero, se non evitare, limitare in modo significativo.
Non è un caso quindi se sono sempre di più i paesi a guardare con interesse al modello sud-coreano, compresi i lontani Stati Uniti. Ma il problema che la strategia sud-coreana pone è evidente: il diritto alla privacy ne risulta seriamente ridimensionato, se non del tutto annullato. Tuttavia, ciò non significa che il modello di Seul debba essere condannato in toto: esso può piuttosto essere da esempio per mettere a punto nuove misure in grado di mediare i suoi eccessi, pur conservandone gli aspetti positivi, in primis la possibilità di individuare e rendere note nel dettaglio le singole aree infette e quindi maggiormente pericolose.