Nonostante vi sia stato tempo da dedicare al tema dei “riders” intendendo così tavoli ministeriali, regionali, comunali, sindacali, e cosi via, nonostante vi sia stato un provvedimento normativo che è intervenuto sulla questione “contrattuale” della prestazione dei “riders”, la sensazione è che il dibattito non sia ancora del tutto chiuso. In tal senso, ho letto con piacere l’articolo di Francesco Seghezzi sul “Sole24Ore” del 30 ottobre u.s. all’interno del quale si ripercorrono tutte le ragioni da me evidenziate a suo tempo per escludere che si potesse e dovesse applicare un ragionamento giuridico fondato sui principi conosciuti all’attuale schema della gig economy.
Nel caso specifico, quello dei riders, la questione principale è l’identificazione di esso quale “lavoro” inteso costituzionalmente, il lavoro dell’art. 1 e 4 della Costituzione e degli articoli a seguire che ne determinano funzione e tutele demandate alle leggi speciali e alla contrattazione collettiva. L’intero sistema “lavoro” al quale si fa riferimento è fondato su di una attività che non è quella svolta dai riders, su di un mercato che non è quello delle piattaforme tecnologiche, su bisogni sociali da soddisfare che non sono presenti in quel panorama giuridico. Praticamente un mondo economico, sociologico e giuridico completamente diverso.
Sarebbe sufficiente questo per escludere che la prestazione di cui stiamo parlato possa essere oggetto di dibattito circa la natura subordinata o autonoma o altro sino ad oggi giuridicamente conosciuto e normativo. Non credo sia possibile e giuridicamente corretto applicare una fattispecie giuridica ad un “fatto” che non può in alcun modo integrare i requisiti della fattispecie stessa. Sappiamo però che la questione è solo parzialmente giuridica, essendo stata – perlomeno fino ad oggi – trattata molto più seriamente solo sotto l’aspetto politico e di battage mediatico unicamente diretto all’acquisizione di consenso.
Come ho già affermato in altre occasioni qui non si tratta di dare o negare tutele e/o protezioni, bensì di immaginare una forma contrattuale che possa tenere anche conto dell’intero contesto economico/imprenditoriale, nonché della qualità della prestazione; insomma occorre conoscere a fondo il funzionamento, le dinamiche, le persone, i clienti per poter immaginare di offrire una cornice giuridica a questa attività economica.
Cosa è accaduto di nuovo? Lo sottolinea bene l’autore dell’articolo prima citato, ovvero l’emersione di un pensiero “non ascoltato”, i “riders” che in occasione della discussione in Parlamento del decreto 101/2019 hanno fatto sentire una voce e preso posizione sul testo normativo; una posizione scomoda da riproporre a livello mediatico con la stessa intensità riservata alla parte “politica” ma una posizione che ben rappresenta “di fatto” il mio pensiero giuridico. I riders della petizione fanno presente che la norma in commento andrà a nuocere sia in termini economici che di qualità del lavoro!
Chi può affermare questo? La risposta è semplicissima, coloro che sono i veri destinatari dell’opportunità di lavoro fornita dalla piattaforma, coloro che sanno benissimo che esso non sarà il “lavoro del futuro” (sic!) ma che trattasi di attività temporanea, di breve durata, di interpretazione di un reddito già esistente o per far fronte agli studi o bisogni straordinari. Coloro che approcciano in questo modo hanno bisogno di massimizzare gli sforzi ed avere più occasioni di lavoro possibili.
Non stiamo parlando di tutele! Quelle ci devono essere, ma non è possibile intervenire sulle modalità di prestazione ed organizzazione come se avessimo di fronte le normali aziende metalmeccaniche o altro settore degli inizi del ‘900. Mi pare evidente che tale pensiero sarà criticato solo da coloro che credono che l’attività di cui stiamo parlando sia un “modo” per creare occupazione strutturale, quella valida ai fini della percentuale da trasmettere alle varie commissioni o da raccontare nelle varie trasmissioni televisive. Ma a chi ha competenza, onestà intellettuale ed a cuore il futuro del Paese e dei giovani non si possono raccontare “frottole”. Questi sono “lavoretti” ma non nel senso negativo del termine, bensì nel senso dell’affidamento che in essi si deve trovare per la costruzione del proprio futuro.
Io continuo a pensare che nel nostro Paese vi sia una modalità errata di affrontare qualsiasi questione e/o problema e/o opportunità; prima devono essere soddisfatte le esigenze “politiche”, mediatiche, populiste, poi solo in un secondo momento ci si occupa del problema in modo strutturale e ci accorgiamo che è troppo tardi. Sono tutti scappati. Questo è il paradigma da invertire, si chiama “serietà”.