Il confine tra libertà dell’individuo e rispetto dello spazio altrui non è sempre facile da tracciare, soprattutto in un contesto virtuale e (solo apparentemente) astratto qual è il web. È quanto appare evidente dal polverone mediatico generatosi attorno all’ultima proposta di legge del deputato di Italia Viva Luigi Marattin: rendere obbligatorio il documento d’identità per l’iscrizione ai social network. L’idea, nata – a detta del deputato renziano – dalla necessità di tutelare gli utenti del web, ha però da subito suscitato diverse critiche, anche tra gli esperti del settore.
“Impedire che il web rimanga la fogna che è diventato”. È questa la motivazione che ha spinto Marattin ha diffondere tramite Tweet la sua ultima proposta di legge, quella di obbligare chiunque voglia avere un profilo social a presentare un documento d’identità, pur preservando il diritto al nickname. Il web dovrebbe essere “uno strumento – ha dichiarato Marattin in un tweet – per rafforzare e allargare le nostre democrazie e non per rovinarle”. Ecco dunque l’idea di introdurre un ulteriore elemento di riconoscibilità degli utenti, con l’obiettivo ultimo di limitare e combattere fenomeni quali le fake-news, i profili falsi e ovviamente il cyber-bullismo.
Dalle idee ai fatti. Qualche ora dopo il tweet incriminato infatti Marattin ha lanciato via social una petizione ufficiale, sostenuta da Italia Viva, per far sì che “anche i social network – si legge sul sito del neonato movimento – per legge ed avvalendosi di autorità terze, possano esser messi nelle condizioni di garantire che ad un account corrisponda un nome ed un cognome di una persona reale”. Il fine dovrebbe essere quindi quello di rendere gli utenti “eventualmente rintracciabile in caso di violazioni di legge”, ma le cose non sono così semplici e lineari, come potrebbe sembrare.
Una proposta “inutile”. È questa la critica principale mossa contro Marattin, anche da esperti della materia come il professore del Politecnico di Milano Stefano Zanero. Quest’ultimo, in particolare, ha fatto notare – si legge sull’Agi – che “il cosiddetto ‘anonimato online’ in realtà già non esiste: esiste lo pseudonimato, ovvero la possibilità di usare un nickname o un nome finto anziché quello vero”. Inoltre – fanno notare alcuni esperti – gli strumenti per identificare gli utenti esisterebbero già, riferendosi alla possibilità di risalire dai profili social agli indirizzi IP.
Ma Marattin sembra non demordere, come dimostra la lettera pubblica inviata a la Repubblica in risposta alle critiche sollevate dal giornalista Riccardo Luna. Il nodo della questione sembrerebbe essere la possibilità di conciliare il diritto all’anonimato con la necessità di identificare ogni utente. Marattin, in particolare, ha voluto sottolineare come il secondo punto non sia in realtà così facile da garantire. “Questa affermazione – ha argomentato Marattin – corrisponderebbe a verità se già oggi la magistratura potesse sempre e comunque risalire con certezza all’utente di un profilo e identificarlo. Ma questa cosa, come sa chiunque abbia intentato un’azione legale per atti commessi in rete, semplicemente non è vera.” Luna, dal canto suo, è intervenuto immediatamente a ribadire come, nonostante il problema dei profili fake e dell’hate speech sia reale, la strada suggerita dal deputato renziano sia del tutto inefficace. “Gli odiatori volendo si trovano già così. Costringere tutti gli italiani a dare la carta di identità per navigare non serve a combattere le fake news e gli odiatori. Non è una opinione, è un fatto” ha ribadito con fermezza Luna dalle pagine de la Repubblica, ma il dibattito sulla questione sembra tutt’altro che chiuso.