Nel procedimento logico che accompagna l’interpretazione delle norme ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come lavoro subordinato oppure lavoro autonomo, per anni la giurisprudenza ha formulato un principio di grande rilevanza, ossia che non esiste una materia ontologicamente devoluta alla subordinazione o all’autonomia, perché la maggior parte delle attività lavorative possono essere svolte, su accordo tra le parti, sia nella forma del rapporto di lavoro subordinato, sia nella forma del rapporto di lavoro autonomo, ovvero parasubordinato (quello dei collaboratori coordinati e continuativi e a progetto).
Sulla base di tale principio, qualora tra le parti di un rapporto di lavoro sia stato raggiunto un accordo di collaborazione autonoma, chi voglia rivendicare davanti al giudice del lavoro l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, è tenuto a provare la sussistenza una serie di elementi – alcuni definiti essenziali e altri identificati come sussidiari – diretti a rendere evidente che il prestatore di lavoro invece di essere autonomo nella gestione della prestazione è, invece, assoggettato al potere direttivo, organizzativo e disciplinare di un altro soggetto, ossia del committente che si qualifica a tutti gli effetti come datore di lavoro.
E ciò in ragione dell’inserimento – si dice funzionale – all’interno di un’azienda o di un contesto produttivo organizzato con vincoli, ad esempio, di esclusiva, di rispetto di un orario di lavoro e di direttive in merito alla puntuale esecuzione della prestazione lavorativa.
Tali principi hanno trovato applicazione nella pratica giurisprudenziale sia nella ipotesi in cui la domanda di riqualificazione del rapporto di lavoro fosse stata originata da un rapporto identificato tra le parti come rapporto di lavoro autonomo ai sensi dell’art. 2222 c.c., sia nei casi in cui la medesima domanda fosse stata originata da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, ossia da un rapporto di lavoro definito di “parasubordinazione” perché caratterizzato da elementi di coordinamento della prestazione lavorativa molto simili a quelli del lavoro subordinato.
In tale contesto, a partire dal 2003, il legislatore ha voluto introdurre all’interno del nostro ordinamento giuridico il “lavoro a progetto”, ossia una forma di collaborazione coordinata e continuativa caratterizzata in misura esclusiva dalla identificazione, tra le parti del rapporto, di un obiettivo specifico e circoscritto (il progetto, appunto) costituente l’oggetto della prestazione lavorativa da parte del collaboratore. Non solo, il legislatore ha voluto introdurre, altresì, per tali tipologie di rapporti una serie di garanzie formali e normative, contenute negli artt. da 61 a 69 del D.Lgs. n. 276/2003, indirizzate ad assicurare al collaboratore, pur nel quadro di un rapporto di lavoro sempre di tipo autonomo ma “parasubordinato”, tutele più specifiche rispetto a quelle conosciute ed applicate fino ad allora, quali ad esempio la tutela dei periodi di malattia e di maternità, la regolamentazione del recesso dal rapporto di lavoro ed altre ancora.
La riforma introdotta nel 2012 con la legge 28 giugno 2012, n. 92, si è inserita in tale contesto e, da un lato è intervenuta in modo più specifico nella materia delle collaborazione a progetto, mentre, dall’altro ha introdotto alcune novità in materia di collaborazioni autonome con soggetti titolari di partita IVA. Novità dirette a disincentivare il ricorso ai contratti di collaborazione autonoma con le persone fisiche ex art. 2222 c.c.. Con soggetti, in pratica, che, pur inquadrabili come prestatori di lavoro autonomo in qualità di “consulenti” svolgano la loro prestazione con modalità molto vicine a quelle dei collaboratori coordinati e continuativi se non addirittura dei dipendenti ma, in sostanza, senza progetto.
L’art. 69bis del D.Lgs. n. 276/2003 introduce in questa materia una presunzione giuridica, non di subordinazione, bensì di parasubordinazione. Ciò significa che, qualora non sia fornita la prova da parte del committente/datore di lavoro che il rapporto di lavoro è un genuino rapporto di collaborazione autonoma, lo stesso potrà essere considerato di “parasubordinazione” e potenzialmente, in assenza di progetto, un rapporto di lavoro subordinato. La previsione in questa materia di una presunzione – seppure relativa e cioè che ammette la prova contraria da parte del committente – di riconduzione del rapporto di lavoro ad una collaborazione coordinata e continuativa e, quindi, in ipotesi anche alla subordinazione determina, quale conseguenza la necessità di una particolare attenzione nella stesura del contratto e nella valutazione delle specifiche competenze professionali del lavoratore autonomo, al fine di evitare che per effetto della oggettiva assenza di un progetto e per le modalità di gestione del rapporto di lavoro, lo stesso possa essere ricondotto, di fatto, con un meccanismo di “doppia presunzione” ad un rapporto di lavoro subordinato.
In definitiva, in base alle nuove previsioni di legge, tali prestazioni sono considerate, salvo che sia fornita prova contraria da parte del committente, rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, qualora ricorrano almeno due dei seguenti presupposti (con riferimento ai rapporti instaurati successivamente al 18 luglio 2012):
a) che la collaborazione con il medesimo committente abbia una durata complessiva superiore a otto mesi annui per due anni consecutivi;
b) che il corrispettivo derivante da tale collaborazione, anche se fatturato a più soggetti riconducibili al medesimo centro d’imputazione di interessi, costituisca più dell’80 per cento dei corrispettivi annui complessivamente percepiti dal collaboratore nell’arco di due anni solari consecutivi;
c) che il collaboratore disponga di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi del committente.
Attenzione però, perché il legislatore specifica che la presunzione di cui sopra non opera qualora la prestazione lavorativa presenti i seguenti requisiti:
– sia connotata da competenze teoriche di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi, ovvero da capacità tecnico-pratiche acquisite attraverso rilevanti esperienze maturate nell’esercizio concreto di attività;
– sia svolta da soggetto titolare di un reddito annuo da lavoro autonomo non inferiore a 1,25 volte il livello minimo imponibile ai fini del versamento dei contributi previdenziali di cui all’art. 1, comma 3, L. 233/90 (ossia non inferiore a circa € 18.000,00)
– si riferisca a prestazioni lavorative svolte nell’esercizio di attività professionali per le quali l’ordinamento richiede l’iscrizione ad un ordine professionale, ovvero ad appositi registri, albi, ruoli o elenchi professionali qualificati. Alla ricognizione delle predette attività si provvede con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Si ricorda che tali attività sono quelle previste dal codice civile agli artt. 2229 e segg. e quelle indicate dal decreto, datato 20 dicembre 2012 che è stato reso disponibile sul sito ufficiale del Governo e non risulta pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Il decreto specifica che gli ordini o collegi professionali, i registri, gli albi, i ruoli e gli elenchi professionali indicati dall’art. 69bis sono solo quelli tenuti o controllati da un’amministrazione pubblica di cui all’art. 1, comma 2 D.Lgs. n. 165/2001, nonché da federazioni sportive, in relazione ai quali l’iscrizione è subordinata al superamento di un esame di stato o comunque alla necessaria valutazione, da parte di specifico organo, dei presupposti legittimanti lo svolgimento dell’attività. Il decreto elenca, a tal fine, a mero titolo esemplificativo una serie di ordini, tra cui il Consiglio del Notariato, l’Ordine Nazionale Forense, l’Ordine degli Attuari, l’Ordine degli psicologi, il Consiglio Nazionale Ingegneri etc.
La materia è sicuramente ancora in divenire ed è sicuramente bisognosa di ulteriori approfondimenti. Si ricorda, tra l’altro, che con L. 14 gennaio 2013, n. 4 il legislatore ha anche introdotto una disciplina più specifica anche per le professioni non regolamentate avendo riguardo all’attività economica, anche organizzata, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale ad esclusione delle attività cosiddette “riservate” sopra ricordate. Segno di una particolare attenzione, da parte del nostro ordinamento giuridico, ad una più incisiva regolamentazione di tutte le forme di lavoro autonomo eseguito in forma individuale.
Avv. Paola Salazar