Con sentenza del 17 ottobre 2019, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affermato come non costituisce violazione agli articoli 6 e 8 della Convenzione – tutelanti rispettivamente il diritto dell’individuo all’equo processo ed al rispetto della vita privata e familiare – la condotta di un datore di lavoro (nello specifico, un supermercato spagnolo che si era accorto del crollo ingiustificato delle scorte e delle vendite), il quale decida di installare delle telecamere nascoste senza avvertire i propri dipendenti, al fine di verificare se questi ultimi lo stessero derubando.
Quindi, secondo i massimi Giudici comunitari, nei confronti dei lavoratori scoperti a rubare e licenziati non vi è stata violazione di diritti inalienabili della persona, giacché la scelta del datore di lavoro doveva considerarsi giustificata in ragione dei fondati sospetti e delle ingenti ed altrimenti inspiegabili perdite subite (nonché della limitata durata limitata nel tempo delle riprese effettuate per scovare i malfattori, del posizionamento delle telecamere finalizzato al preciso scopo e non ad altro, ed il ristretto numero di persone che ha visionato i relativi filmati).
Con approccio semplicistico, potremmo allora dire che anche la CEDU ha accolto la definizione di controlli difensivi, giungendo al medesimo approdo interpretativo conquistato decenni fa – non senza fatica, dubbi e cambi di rotta improvvisi – dalla giurisprudenza italiana, per alleggerire il fermo divieto introdotto nella versione originaria della norma giuslavoristica sul divieto di controlli a distanza.
Ma questa pronuncia, che invero introduce assai meno novità di quanto si creda, rappresenta una buona occasione di riflessione sulla situazione attuale, tanto più che in seguito alla sua pubblicazione molti, come sempre, si sono lanciati in commenti più o meno sensazionalistici, senza considerare che essa, anzitutto, non ha un impatto diretto nel nostro ordinamento, e in secondo luogo, che qui da noi i problemi sono ben altri ed attengono alla struttura stessa del testo normativo racchiuso nel corpus dell’art. 4 dello Statuto del Lavoratori.
Facciamo un passo indietro: non ce ne vorranno gli entusiasti dell’ultim’ora, ma per una volta la magistratura italiana aveva già detto autorevolmente la sua, poiché è del 2010 la sentenza (precisamente la n. 20722) della Cassazione che aveva escluso qualunque illiceità (penale) nella installazione di telecamere – in assenza, ovviamente, di un preventivo accordo sindacale o di una autorizzazione ministeriale – atte a verificare la commissione di atti illeciti da parte di personale dipendente, trattandosi di accertamento volto alla tutela del patrimonio aziendale ed alla scoperta di atti di natura fraudolenta.
Va detto però che l’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori, nella sua attuale formulazione, rischia di mettere in discussione il descritto approdo giurisprudenziale: ciò perché il dettame normativo, come modificato dall’art. 23, D. Lgs. 151/2015, autorizza espressamente l’impiego di impianti audiovisivi dai quali derivi la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei dipendenti, ma lega tale legittimo utilizzo alla sussistenza di una molteplicità di ragioni, fra cui anche la tutela del patrimonio aziendale (e cioè l’elemento essenziale attorno al quale la teoria giurisprudenziale dei controlli difensivi è stata elaborata!). In presenza di tale finalità, quindi, il controllo è legittimo ove sia rispettato l’ulteriore requisito procedurale, ovvero la presenza di un accorso sindacale o di una autorizzazione ministeriale.
Ebbene, viene da sé che la positivizzazione dei controlli difensivi è normativamente accompagnata alla loro procedimentalizzazione, con il rischio evidente di frustrare l’efficacia e l’effettività di ogni controllo volto a reprimere condotte illecite, perché stando al testo letterale della norma la finalità della tutela del patrimonio aziendale, in quanto finalità legale per l’installazione delle telecamere, dovrebbe sempre richiede la condivisione sindacale (o in sua assenza l’autorizzazione ministeriale), da un lato, e il rispetto delle normative privacy, ivi compresa l’informativa. E così addio ad ogni buon proposito di scovare i furbetti di turno.
Fortunatamente, la giurisprudenza ha recepito l’effetto potenzialmente paradossale di un simile formalismo interpretativo, e non senza immaginazione ha inteso, anche di recente, ribadire la legittimità dei controlli difensivi, ritenendo questi coincidenti con quelli posti in essere non già per verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, bensì la repressione di atti illeciti posti in essere ai danni di beni estranei al rapporto di lavoro (da ultimo, Corte d’Appello di Roma, 22 marzo 2019, n. 1331).
Ed allora la sentenza della Corte Europea non pare incidere più di tanto sullo scenario nazionale, il quale necessiterebbe in realtà di un ulteriore intervento correttivo sulla norma, atto a chiarire definitivamente il perimetro dei controlli legittimi da quelli illegittimi, di guisa da fornire supporto alla magistratura mai come in questa materia chiamata a pronunciarsi su aspetti liquidi e mutevoli in quanto fortemente correlati con la tecnologia.
In attesa che ciò accada, v’è sempre la possibilità di avvalersi del particolare strumento del contratto collettivo di prossimità ai sensi dell’art. 8, L. 138/2001, ma, per esperienza, il sindacato non pare aver ancora maturato sufficiente coraggio per superare il preconcetto politico ed ideologico della “non utilizzabilità ai fini disciplinari” delle informazioni raccolte attraverso la legittima interrogazione di uno strumento di controllo. È forse proprio su questo che ci si dovrebbe soffermare e avviare un dialogo costruttivo tra tutte le parti in causa.