I teenager abituati a chattare con WhatsApp e a postare foto su Instagram, ma anche una buona parte del popolo di Facebook, probabilmente non la conosce neppure. Eppure Yahoo, fra la fine degli anni ’90 e gli inizi del nuovo millennio, era “l’Internet company” per eccellenza, il principale portone di ingresso nella Rete per milioni e milioni di utenti nel mondo, la piattaforma per utilizzare la posta elettronica anche da remoto e accedere a vari altri servizi, dal motore di ricerca alle informazioni sulla finanza per arrivare alla messaggistica (con il primo Messenger globale della storia, che duellò a lungo con quello di Microsoft, Msn). La Google attuale, insomma, con tutti i distinguo del caso. La notizia, ufficiale, dell’imminente chiusura parziale di Yahoo Gruppi, online dal 2001, riporta d’attualità la storia di un’azienda che ha rotto molti schemi (come lo fecero in quegli anni realtà come Altavista o Netscape) ma che non ha saputo via via innovarsi e trasformarsi per capitalizzare una comunità di utenti enorme.
Stop a partire dal 21 ottobre. Yahoo Gruppi sbarcò online 18 anni fa con un obiettivo chiaro e preciso: fornire agli utenti un punto di incontro all’interno del quale avviare discussioni su argomenti di qualsiasi natura. Uno strumento multifunzionale a disposizione della community, una via di mezzo tra forum e mailing list, integrato con i servizi di posta elettronica. Ma che non è riuscito a competere con i social network e la morbosa attenzione che milioni (anzi miliardi) di internauti hanno riservato alle piattaforme salite alla ribalta negli ultimi dieci anni, da Facebook in giù. Lo zoccolo duro di fedelissimi che non hanno abbandonato Gruppi, vista la decisione presa dalla società di Sunnyvale, non sembra essere sufficiente a giustificarne il, almeno nella forma finora conosciuta. Con decorrenza 21 ottobre gli iscritti non potranno più pubblicare nuovi contenuti sul sito e alla scadenza del 14 dicembre l’intero archivio di quelli condivisi e postati in precedenza (distribuiti nelle varie sezioni File, Sondaggi, Link, Foto, Cartelle, Database, Calendario, Allegati, Conversazioni e via dicendo) verrà rimosso in modo permanente. Chi volesse scaricare quanto pubblicato potrà farlo entro tale data utilizzando le impostazioni di privacy del sito di Yahoo. Successivamente il sito continuerà a esistere, ma i gruppi pubblici diventeranno privati e sarà necessaria l’approvazione di un amministratore per farne parte; gli utenti potranno continuare a essere in contatto con i propri gruppi via e-mail.
I (tanti) motivi di una crisi annunciata. Accusare Google o Facebook o anche Instagram e Twitter per il “fallimento” di Yahoo è probabilmente improprio. Il mercato ha le sue regole e l’economia digitale viaggia a ritmi così veloci che non lascia scampo a chi si ferma, non innova e si adatta alle mutevoli esigenze della domanda. Certo nessuno poteva immaginare, agli inizi del nuovo millennio, quando i manager italiani di Yahoo (Alessandro Pegoraro nella fattispecie) campeggiavano sulle copertine dei settimanali con l’appellativo di “nuovi Yuppies” che l’azienda fondata nel 1994 a Sunnyvale, nel cuore della Silicon Valley, da due studenti dell’università di Stanford, David Filo e Jerry Yang, potesse conoscere un simile destino. E pochissimi probabilmente ricordano che prima di finire nelle mani di Verizon, Yahoo fu vicina in un paio di occasioni a comprare (o perlomeno rilevarne una parte) nientemeno che Google: una prima volta nel 1998, quando la richiesta di un milione di dollari avanzata da Larry Page e Sergei Brin (i fondatori del gigante di BigG) per il brevetto di Page Rank fu superficialmente rifiutata, e una seconda volta nel 2002, quando furono i vertici di Google a rispedire al mittente un’offerta da tre miliardi di dollari messa sul piatto da Yahoo. E come dimenticare la lunga estate del 2008, quando Microsoft mise inutilmente sul tavolo 44,6 miliardi di dollari per rilevare la compagnia.
Un declino inesorabile. Gli errori strategici del management di Yahoo, in anni che si apprestavano ad accogliere il boom delle app mobili e dei social network, hanno fatto storia. Nel 2012, l’arrivo al timone di Marissa Mayer, ex ingegnere prodigio di Google e fra i personaggi più noti dell’intera Silicon Valley, fu accolto con grande entusiasmo dalla comunità tech ma non è servito a risollevare le sorti finanziarie della prima storica web company. Anzi. Gli introiti derivanti dalla pubblicità online sono via via stati erosi dall’espansione di Facebook e Google e alla fine dell’esercizio fiscale 2015 le perdite operative ammontavano a 4,7 miliardi di dollari rispetto ai 142 milioni di profitti di dodici mesi prima. Nel corso dello stesso anno partirono le negoziazioni con il gigante delle telecomunicazioni Verizon, che ha concluso l’acquisizione di Yahoo nel luglio del 2016 per “soli” 4,8 miliardi di dollari e una community di miliardo di utenti. Segnando, di fatto, la fine di un’epoca.