Il 19 settembre scorso è stata firmata la convenzione tra Inps, Ispettorato nazionale del lavoro, Confindustria, Cgil, Cisl, Uil sulla misurazione della rappresentanza sindacale, così ultimando il percorso attuativo del Testo unico siglato dalle parti sociali a gennaio del 2014. Si è introdotta una forma di misurazione certa della rappresentatività sindacale, ottenuta sulla base della media tra il numero degli iscritti ed i voti ottenuti alle elezioni delle Rsu. Di fondamentale importanza, poi, sono l’individuazione di una soglia di rappresentatività del 5% (intesa come mix tra iscritti e voti) che deve essere raggiunta dai sindacati per essere convocati ai tavoli negoziali e la previsione che vengono considerati validi i contratti sottoscritti dai sindacati che abbiano un consenso superiore al 50% dei rappresentati.
Le Parti sociali hanno portato a compimento un passaggio fondamentale nel percorso che deve assegnare una sicura efficacia erga omnes alle previsioni del contratto collettivo, un obiettivo da cogliere per offrire una alternativa credibile all’introduzione del salario minimo legale e per far fronte alla giungla retributiva permessa dallo stato di incertezza che contraddistingue il campo delle relazioni industriali.
L’introduzione di un salario minimo fissato per legge è, in realtà, quanto di più lontano possa immaginarsi dal precetto dell’art. 3 della Carta costituzionale e scambia l’uguaglianza sostanziale tra i cittadini con il mero egualitarismo tra soggetti che sono in posizione tra loro anche diametralmente opposta. La nostra Carta costituzionale impone che chi si trovi in condizioni uguali abbia le medesime tutele: è del tutto evidente che un salario minimo uguale per tutti su base nazionale non trovi in questo precetto alcun fondamento, proprio perché questa misura si fonderebbe sulla sola condizione dell’essere cittadini italiani e non sul presupposto del trovarsi nelle medesime condizioni di fatto.
L’attuazione del Patto della Fabbrica, sottoscritto il 9 marzo 2018, passava in primo luogo per questa tappa, perché solo l’introduzione di regole in grado di certificare la rappresentatività degli attori delle relazioni industriali può consentire un ruolo forte alla contrattazione collettiva, nazionale ed aziendale. Un percorso che, sulla scorta di quanto avvenuto in materia di contratto di prossimità, veda cooperare Parti sociali e Legislatore nella identificazione di un sicuro approdo normativo che garantisca forza di legge solo a contratti collettivi che siano effettivamente rappresentativi delle realtà sociali disciplinate.
Su questa base pare possibile impostare un percorso alternativo rispetto a quello di chi immagina di introdurre un salario legale minimo uguale per tutti. Una contrattazione collettiva forte, efficace e rappresentativa è infatti in grado di raggiungere un risultato molto più equo, che sia al contempo rispettoso del dettato costituzionale e della reale capacità di uno specifico contesto produttivo di generare valore. Per far questo occorre, molto semplicemente, che il Legislatore replichi ed estenda il modello applicato con il contratto di prossimità, che ha tradotto in precetto normativo il criterio negoziato dalle Parti sociali con l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011.
Scritto da Avv.to Andrea Bonanni, Partner LabLaw