Roma. È tornato di attualità politica il dibattito sul salario minimo e, nello specifico, sul disegno di legge a prima firma Sen. Nunzia Catalfo indicato come il testo di riferimento dell’intero Movimento 5 Stelle. L’esigenza sottostante alla proposta (garantire a tutti i lavoratori italiani un compenso equo come prescritto dalla Costituzione) non può che essere condivisa. Allo stesso modo, la soluzione tecnica individuata (il minimo tabellare di riferimento è quello dei contratti collettivi) è rispettosa del sistema di relazioni industriali italiano.
La discussione si è allora accesa attorno al valore individuato come soglia minima: 9 euro lordi all’ora. Effettivamente, tale soluzione “spiazzerebbe” il 25% degli occupati nelle imprese fino a 10 dipendenti (il 14,6% della forza lavoro complessiva), per un costo complessivo a carico delle imprese di 4,1 miliardi (dati ISTAT e INAPP).
Come conseguire l’obiettivo di innalzamento dei salari senza causare nel breve termine scompensi che avrebbero come sicuro effetto maggiore disoccupazione? AIWA (l’Associazione italiana dei provider di welfare aziendale) con le dichiarazioni del suo presidente, Emmanuele Massigli, concorda con quanto previsto nell’emendamento n. 2.26 in discussione alla Commissione Lavoro del Senato. La soluzione è quella di esplicitare nel testo di legge la possibilità di riconoscere una quota del salario minimo (non oltre il 15%) in beni e servizi di welfare di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 51 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR).
Una misura di questo genere, tecnicamente molto semplice, permetterebbe, secondo la nota di AIWA: 1) di raggiungere la soglia di 9 euro ipotizzata nel disegno di legge senza incorrere in effetti di spiazzamento; 2) non “speculare” sulle maggiori risorse richieste alle imprese più piccole guadagnando sulle quelle cifre maggiori entrate fiscali (diventerebbe una tassa sulle PMI); 3) diffondere una sana e non opportunistica cultura del welfare come moderna evoluzione del rapporto di lavoro; 3) attivare un rilevante indotto economico (maggiore occupazione, emersione del nero, maggiore gettito fiscale) e sociale (servizi di qualità negli ambiti nei quali lo Stato fa più fatica ad accompagnare i cittadini come la cura dei figli, degli anziani e delle persone non autosufficienti) connesso ai servizi alla persona.