Come spiega Enrico Sassoon nella sua prefazione al testo, questo è “il libro di un autore che non sopporta la stupidità e vuole celebrare l’intelligenza. Il ricorso a paradossi, aforismi, citazioni sagaci di personaggi storici o di semplici cittadini, ha in fondo solo questo scopo: avvertire il lettore del rischio esistenziale che la società in cui viviamo sta correndo per l’aumento esponenziale di incompetenza, opportunismo e stupidità, ed esortarlo ad abituarsi a fare una cosa rivoluzionaria: la scelta giusta”.
Ne “L’età del paradosso”, Paolo Iacci parte dunque dal presupposto che il paradosso è diventato un elemento strutturale della nostra vita quotidiana, nella società come nelle imprese. Un fatto che va riconosciuto e accettato per riuscire a far emergere i comportamenti migliori. Di esempi l’autore ne fa parecchi, enumerando ben 25 paradossi del nostro tempo, quelli che, più di altri, dimostrano le contraddizioni sociali e gestionali in cui viviamo. Vere e proprie massime da leggere tutte di fila o, come suggerisce l’autore, saltando da una all’altra, scegliendo quelle che ci incuriosiscono di più. Riflessioni che fanno sorridere e riflettere su quello che siamo diventati e su come provare a cambiare. Cosa forse più facile a dirsi che a farsi, ma questo è il lato divertente della sfida lanciata da Iacci.
Pensiamo al paradosso della privacy: chiediamo a gran voce una legislazione più protettiva in termini di difesa della privacy e nel frattempo, senza pudore, confessiamo in rete i nostri fatti più intimi. Come clienti, invece, esigiamo prezzi inferiori ma nello stesso tempo una qualità eccellente, un servizio più personalizzato e una maggior garanzia sugli standard offerti. Lo stesso vale nelle aziende: gli azionisti pretendono specializzazione e insieme diversificazione, tagli ai costi ma persone più motivate, nuovi prodotti insieme a una riduzione degli investimenti in ricerca. Ancora, mentre tutti parlano di smart working e di lavoro agile, nelle organizzazioni cresce la voglia di comitati, si perde sempre più tempo in riunioni di coordinamento e d’informazione, anche quando c’è poco da coordinare e ancor meno da condividere.
C’è poi il paradosso di Abilene: quando, per evitare ogni contrasto, tutti cercano di pensare nello stesso modo, nessuno pensa, si annulla il pensiero divergente e così si determina solo l’assenza di pensiero strategico. Ancora, c’è il paradosso della meritocrazia: a parole tutti propugnano la meritocrazia ma poi prevalgono le cordate. Tutti chiedono a gran voce l’elezione dei migliori ma ognuno cerca per sé il piccolo privilegio e la protezione del potente di turno. L’italiano medio preferisce vivere all’ombra dei potenti, piuttosto che assumersi, oltre agli onori, anche gli oneri del potere. Farebbe qualsiasi cosa pur di poter godere della vicinanza del potente di turno. Insomma, sembra che abbiamo perso la bussola su ogni fronte.
“Ciò che ci deve guidare”, conclude l’autore, “è la voglia di comprendere questi paradossi, al fine di trovare una via d’uscita possibile”. L’idea sarebbe quella di passare da una cultura dell’aut… aut a una cultura che preveda costitutivamente l’et… et. “Sopravvivere cercando di trovare la quadra tra esigenze differenti e fenomeni contrastanti è tutt’altro che semplice. È facile perdere la strada maestra, perché ogni volta si tratta di trovare sentieri nuovi, perseguendo a volte il male minore, più che la via ottimale”.