Chiudersi alle spalle la porta dell’ufficio e infilare tranquilli quella di casa propria, certi del fatto che qualunque esigenza lavorativa occorsa a fine turno potrà essere gestita l’indomani. In Italia è ancora un sogno, interrotto dal lampeggiare di cellulari che notificano senz’appello mail e messaggini whatsapp del capo. In Francia invece è realtà al 2016, quando il “diritto alla disconnessione” ha vietato ai datori di lavoro telefonate e comunicazioni ai dipendenti al di fuori dell’orario previsto. Ai lavoratori è garantito, appunto, il diritto a non dar seguito a richieste successive, fatto salvo il mantenimento del posto di lavoro. Una netta demarcazione tra dimensione professionale e vita privata, a tutela sia dell’una che dell’altra: se da un lato i danni da stress lavoro correlato mietono sempre più vittime, dall’altro una recentissima stima dell’Ocse attesta che quantità di lavoro e produttività sono inversamente proporzionali.
Italia stakanovista. E’ proprio il caso del nostro Paese: Italia stakanovista, con le sue 33 ore lavorate a settimana, terza in Europa solo rispetto a Grecia ed Estonia, ma anche Italia ai fanalini di coda per produttività, in crescita media del solo +0,14% annuo. Parallelamente, il segno meno sul potere d’acquisto degli stipendi, ha puntato i riflettori sulla necessaria diminuzione dei tempi d’ufficio a parità di salario: “meno ore, più impiegati”, propone il presidente dell’Inps Pasquale Tridico. Una risposta a disoccupazione e povertà, ma anche a quella che è tristemente nota come “workhaolic”, ovvero “dipendenza da lavoro”, spesso ingenerata dai superiori, qualche volta invece causata dall’ansia personale di far fronte in ogni momento a qualunque tipo di emergenza. Posto che la corsa all’iper-lavoro viaggia veloce sui binari della spersonalizzazione e di una tecnologia sempre più invasiva, che ci rende praticamente tutti reperibili 24 ore su 24, prende piede l’idea che il sorriso dei lavoratori impatti fortemente sui risultati. Ciò è ancor più vero per il sistema-Paese Italia, noto esportatore di beni unici quali eccellenza e talento, che mal si sposano con le logiche spinte dell’economia di scala.
“Se ti do dignità, domani sarai più responsabile”. Illustre esempio nostrano della produttività “felice” e rispettosa degli individui, quello del re della moda Brunello Cucinelli. Un modernissimo umanista a capo di un impero plurimilionario, che ha di fatto vietato ai suoi 1.700 dipendenti di lavorare oltre l’orario d’ufficio, cioè a partire dalle 17.30 di ogni giorno e, chiaramente, durante tutto il week end. Sebbene implicito nella linea generale del suo gruppo, già nel 2017 lo stilista ha specificato il niet al controllo della mail aziendale nelle fasce riservate al riposo, con l’appello pubblico a tutta la comunità dell’high-tech di “governare la rete per far sì che queste tecnologie vengano utilizzate in maniera garbata, e non privino noi e i nostri figli dell’anima che ci è stata data in dono”. Un imprenditore illuminato, la cui firma parla innanzitutto di un rispetto sacro dell’essere umano. “Forse la dignità viene ancor prima del pane”, ha detto Cucinelli. “Se ti dò dignità, domani sarai più responsabile. E sarai anche più creativo. La dignità genera creatività. E il risultato è un’azienda che cresce in maniera straordinaria”. Non si sbagliava. Da quella dichiarazione sono trascorsi due anni, e l’azienda continua a restituire margini elevati di business. Tanto che anche oggi, ricordando ai suoi dipendenti di preferire sempre la vita reale agli smartphone, Cucinelli ribadisce: “Lavorare più di sei-otto ore è inutile”.
Disconnessione: diritto o buonsenso? Sta di fatto che il riconoscimento del diritto alla disconnessione resta ancora appannaggio dei singoli, sempre al centro del dibattito in tema di rinnovi contrattuali e accordi aziendali, perché non è intervenuta nessuna norma precisa a disciplinare la questione. Insufficiente infatti la legge 81 del 2017 sullo smart working, che prevede il diritto del lavoratore alla disconnessione da piattaforme informatiche e strumentazioni tecnologiche professionali, senza conseguenze sulla prosecuzione del rapporto o sui trattamenti retributivi. Disposizione molto vaga, soprattutto in considerazione dell’indeterminatezza oraria del lavoro agile, scandito da fasi e obiettivi che rendono necessaria la definizione di un accordo tra le parti. Elemento principale da chiarire, se questa “pausa” dalle tecnologie sia riferita agli intervalli previsti durante i turni lavorativi o a partire da fine ciclo.
Ecco perché non poche imprese ci stanno pensando da sole, introducendo misure in direzione di una maggiore “sostenibilità” del lavoro. Lo ha fatto Barilla, che nel 2013 lancia il suo primo progetto di smart working e nel 2015 sigla una delle primissime intese di settore con i sindacati. Nello specifico, l’accordo non parla espressamente di “disconnessione”, ma stabilisce che “durante lo svolgimento dello smart working, nell’ambito del normale orario di lavoro, la persona dovrà rendersi disponibile e contattabile tramite gli strumenti aziendali”, escludendo così collegamenti prima o dopo tali fasce orarie. Sulla stessa falsariga, nel 2017, Enel mette nero su bianco che “la giornata in smart working è equiparata, a tutti gli effetti di legge e di contratto, ad una giornata di orario normale di lavoro e che il dipendente durante l’orario di lavoro è tenuto, tramite gli strumenti tecnologici messi a sua disposizione, ad essere contattabile dal suo responsabile”. Non oltre, così si evince. Acea. L’anno successivo Acea, multiutility romana, consente ai suoi di “scollegarsi” dalle 20.00 alle 8.30. In tema di settori, invece, antesignana è stata la Scuola: primo dei comparti professionali italiani che ha eluso l’obbligo del dipendente di rispondere a mail, messaggi o telefonate in tempi non previsti dall’accordo fra dirigente scolastico e lavoratori, come recita l’articolo 22 del CCNL 2016-2018.
A cura di Sara D’Aloisio