Sono stati ben 28mila i laureati italiani che hanno lasciato il belpaese nel 2017 (dati ISTAT), 4% in più rispetto al 2016. Dal 2013 oltre 244 mila italiani sopra i 25 anni hanno trasferito la residenza all’estero e di questi 156 mila erano laureati o diplomati rispettivamente in aumento del 41,8% e del 32,9% dal 2013.
Queste cifre fornite dall’Istat fotografano quella che viene definita “la fuga dei cervelli”. Allo stesso modo sono sempre di più i giovani che, spesso al termine del proprio percorso di studi, decidono di trasferirsi all’estero per fare un’esperienza di lavoro. Ma quali sono le motivazioni che spingono i ragazzi ad avventurarsi in giro per il mondo? Certo, molto spesso alla base della scelta di lasciare il proprio Paese per migrare verso realtà che offrano opportunità più stimolanti, c’è prima di tutto il fattore economico, ma non sempre è solo questo: non di rado, infatti, ci si sposta per conoscere nuove realtà, per immergersi in culture diverse ed aprire i propri orizzonti nella costruzione di un percorso di crescita professionale ma prima di tutto personale.
Se in passato si lasciava l’Italia per ristabilirsi in nuovo paese e, magari, sognare di tornare in patria per la tanto agognata pensione, oggi è in netto aumento il numero di persone che cambiano diverse volte paese nel corso della propria vita professionale. Entrare a far parte di quella categoria definita “expat” spesso significa di fatto diventare un po’ degli apolidi, dei nomadi con la valigia sempre pronta e il trasloco facile. Significa avere figli nati in paesi diversi e in famiglie in cui si parlano 2 o 3 lingue diverse.
Ma l’erba del vicino è davvero sempre più verde? In realtà, come molte cose della vita, dipende! Il posto perfetto in assoluto non esiste, tutto è relativo e spesso funzione di ciò che si cerca anche in relazione alle diverse fasi della vita. Quello che ci rende felici a 20 anni non necessariamente lo farà a 40 e a 60. Inoltre, le scelte professionali devono necessariamente tenere conto anche della vita personale poiché un equilibrio tra queste due sfere è una condizione necessaria. Così come per diventare avvocato bisogna prepararsi, anche per poter cogliere le opportunità che il mondo può riservare è necessario creare prima le condizioni affinché ciò si concretizzi in un’esperienza positiva. Ovviamente esisteranno sempre le eccezioni, le storie di quelle persone che un po’ per caso un giorno si sono ritrovate all’estero, ma nella grande maggioranza dei casi l’internazionalità si costruisce ad esempio imparando le lingue, affrontando per tempo il discorso con il proprio partner e la propria famiglia, viaggiando, aprendosi e intraprendendo strade con maggiore probabilità di sbocco all’estero.
Infine bisogna essere coscienti che l’essere umano per sua natura non è “progettato” per i cambiamenti e che pertanto lo spostamento porterà con se tutta una serie di piccoli e grandi stravolgimenti da affrontare, di abitudini da abbandonare, banalità quotidiane da imparare nuovamente. E se alcuni possono essere affascinati da tutte queste “scoperte”, altri possono restarne scottati. Di sicuro non pensarci in anticipo può rivelarsi un grande errore.
Trasferirsi per lavoro: una scelta personale o professionale? Certamente ci possono essere molti fattori che spingono tale scelta ma a mio avviso, prima che la necessità e le ragioni professionali, ci devono essere le ragioni personali, la consapevolezza e la voglia di mettersi in gioco, di avventurarsi in un’esperienza nuova sotto innumerevoli punti di vista. Se non si ha voglia, servirà a ben poco la brillante testimonianza dell’amico che, dalla Sardegna, dove è nato e cresciuto, si è trasferito a Milano per laurearsi e da lì poi è arrivato fino in Australia.
L’Italia rimane nel cuore. Trasferirsi all’estero, però (chiariamolo!), non significa rinnegare le proprie origini né abbandonare il proprio Paese. Quando ci si sposta si può affrontare il cambiamento in due modi: (i) apprezzando ciò che il nuovo posto offre oppure (ii) pensando a ciò che si è lasciato. Inutile dire che il primo approccio dei due è quello che rende felice un’esperienza all’estero. Certamente la consapevolezza aiuta ma l’appartenenza al primo o al secondo gruppo è per lo più data dal carattere che, all’età di un trasferimento, si è già formato per quanto riguarda questi aspetti.
E’ anche vero che in un mondo che viaggia a velocità sostenute, le distanze, anche le più ampie, si sono accorciate cosicché in poche ore ed anche a prezzi abbastanza contenuti ci si può spostare da un punto all’altro del Pianeta. Ascoltare se stessi, tuttavia, è fondamentale. Se il proprio istinto porta oltreconfine, è bene assecondarlo e non negarsi mai opportunità di crescita, attraverso l’ampliamento delle competenze, che si può raggiungere solo ponendosi con atteggiamento di apertura verso le nuove e diverse esperienze. Allo stesso modo, non c’è niente di male nel non volersi spostare o, ad un certo punto, nel voler tornare in Italia.
E se rendessimo più verde l’erba di casa nostra? Questo a mio avviso è un punto fondamentale e, ahimè, spesso molto trascurato. Come si diceva all’inizio la tendenza è chiara. Le vite sono e saranno sempre più internazionali, la mobilità sempre più facilitata e il “nomadismo” manageriale sempre più diffuso. Andando un po’ controcorrente, non mi preoccupo tanto della fuga dei cervelli che anzi vedo come un fattore positivo per aprirci e toglierci di dosso un po’ di quel provincialismo di cui spesso veniamo accusati.
La domanda che invece mi pongo è: “come può fare l’Italia a diventare appetibile per i migliori talenti di cui ha bisogno oggi e per le fide che la attendono in futuro?” “In questo scambio osmotico che caratterizza il mondo, come facciamo a diventare il paese dei sogni per chi ha le competenze che ci servono?” Questo è quello che le aziende, da molto tempo, hanno messo sotto il cappello della cosiddetta gestione del talento che parte dal chiedersi qual è il valore che si può dare alle persone che vi lavorano e arriva fino a tutti i meccanismi di sviluppo e ritenzione quali ad esempio il welfare aziendale, i benefit e la cultura più in generale. Le potenzialità Italiane da questo punto di vista sono enormi ma vanno comprese, messe a sistema e sviluppate. Purtroppo l’impegno che ad oggi si mette nello sfruttarle in questa direzione è ancora molto scarso.