Siamo letteralmente circondati da notizie, dati, parole, immagini, suoni. Gli stimoli sono talmente numerosi da arrivare, in alcuni casi, a confonderci. I motori di ricerca che usiamo quotidianamente conoscono oramai – grazie ai dati che abbiamo fornito noi stessi – i nostri gusti e le nostre aspettative e sono pronti – tramite algoritmi mutevoli – a fornirci quotidianamente una informazione su misura, che ci “piace” e rafforza il nostro sistema di credenze. Sembra che la reputazione, la nostra, quella degli altri, quella di istituzioni, aziende, enti, associazioni, si definisca, soprattutto, attraverso la Rete.
Tutti (o quasi) possiamo usufruire di qualche momento di notorietà: follower e like decretano la nostra visibilità e la nostra credibilità’. Parallelamente la necessità di proteggere i nostri dati aumenta di giorno in giorno, visto come, per troppo tempo, abbiamo sottovalutato il valore dei dati che lasciamo quando navighiamo sul web. Dati che riguardano i nostri gusti, le nostre abitudini, le nostre idee politiche, le nostre frequentazioni, il nostro livello medio di spesa. Dati che abbiamo considerato, a torto, come sicuri e invece, spesso, non erano protetti.
Per questo l’unione Europea ha varato il Gdpr (General Data Protection Regulation) il nuovo regolamento sulla Privacy (in vigore dal 25 maggio) che servirà proprio a proteggere i dati e rendere il mercato più trasparente, ma comporta difficoltà e costi per la sua attivazione pratica. La reputazione inoltre è legata al tema dell’informazione: sui social la quantità di informazione pubblicata è enorme, il numero potenziale di lettori è altissimo, la “soglia critica” è, per vari motivi, bassa e la qualità dell’informazione stessa, non di rado, ne risente. Nell’oceano di dati, notizie ed intrattenimenti che si riversano nella rete, la verifica dell’informazione è sempre più importante ed ineludibile, anche perché’ una informazione pubblicata sul web –vera o falsa che sia- lascia tracce per anni e le notizie errate, che circolano in rete senza controllo, possono creare grandi danni alla reputazione.
Non a caso il fenomeno Fake News è diventato così importante ultimamente: basti pensare a come il termine, fino a pochi anni fa inutilizzato, sia divenuto velocemente popolare, a livello mondiale, tanto da essere inserito come parola dell’anno nel Collins Dictionary 2017. (Nella lingua italiana, con più creatività, si usa la parola ‘bufala’ per definire una “notizia clamorosamente infondata’’ (dizionario Sabatini-Coletti) o “una cosa di scarso valore, una fregatura’’ (Grande dizionario italiano dell’uso Utet). Le bufale però, seppure molto di moda, non sono certamente una novità: esistono da sempre e se una volta si esaurivano in pochi giorni, senza grandi clamori, oggi, grazie alla potenza dei social, arrivano velocissime in tutte le parti del mondo, vengono lette (e spesso condivise) altrettanto velocemente e, anche se smentite, continuano a produrre effetti per lungo tempo.
Nell’ambito politico, nella salute, nello sport, nello spettacolo o in qualsiasi altro settore, le bufale sono proliferate, e proliferano, facendo leva sull’emotività, sulle paure e sull’inquietudine, più che sui fatti: un approccio che piace particolarmente a chi usa la rete per persuadere. In certe circostanze infatti, i dati, verificati, passano in secondo piano, rispetto alla parte emotiva del linguaggio, come ben sa chi studia le dinamiche d’acquisto dei consumatori. Le fake news vengono ulteriormente rinforzate da un clima di sfiducia nei media tradizionali che sono percepiti da molti cittadini -non a torto- come “non obiettivi” o “troppo vicini al potere” e le responsabilità dei giornalisti, per questa situazione, non mancano.
Il web risulta oggi più attraente, rispetto ai media tradizionali, per la maggiore libertà d’espressione che sembra garantire pone però problemi di gestione, ed etici, non facili da risolvere: sul web tutti possono parlare di tutto, senza “metterci la faccia” o la firma -come avviene nei giornali, dove invece è bandito l’anonimato- ed il controllo delle fonti, visto anche l’abbondanza di materiale, è impresa ardua. Molti giornalisti, in Italia e all’estero, si sono impegnati a valutare la fonte e l’attendibilità di cosa arriva sul web, ma si tratta di un lavoro gigantesco. Persino le piattaforme social – che pure sulle notizie, vere e false, fanno grandi guadagni – cominciano a sentire, seppur molto debolmente, il bisogno di fare chiarezza.
Mark Zuckerberg fondatore di Facebook (oltre 2 miliardi di utenti nel mondo ed il 97% dei guadagni con la pubblicità), ha fatto inserire sulla piattaforma un decalogo che spiega come riconoscere le notizie false. Altre piattaforme, Google per prima, hanno cercato e cercano la collaborazione con organizzazioni di Fact Checking (cacciatori di bufale); in generale però le Internet Company, che sulle news guadagnano miliardi, non brillano per l’impegno contro le fake news, e i motivi sono facilmente intuibili.
Fare chiarezza non è facile, ma è necessario, se si vuole tutelare la qualità dell’informazione e la reputazione di cittadini e istituzioni, che passa innanzitutto attraverso l’uso consapevole delle tecnologie digitali.