“Sono come un medico degli oggetti. Ho tanti pazienti, molto vecchi, che mi chiedono di aiutarli. Cosa posso fare per te? Domando loro. Le opere non rispondono e noi non possiamo fare altro che guardarli, finché non troviamo una soluzione”.
Lucia Miazzo è una restauratrice. Le sue specialità sono vetro, ceramica e metalli. Diplomata dal 1975 in restauro all’Istituto superiore per la conservazione e il restauro di Roma. Allora il percorso era di tre anni più uno di specializzazione e il corso si divideva nei settori di dipinti e non dipinti. “Le scelte erano tra l’Istituto centrale di Roma e l’Opificio delle pietre dure, oppure per diventare restauratori si poteva passare dal lavoro in bottega”. Entrambe le scuole erano a numero chiuso, con un’importante selezione iniziale: 18 studenti per corso, tre prove iniziali da superare per accedere alla classe. “L’anno che ho provato a fare la selezioni, insieme a me c’erano altri 1180 studenti”, racconta Lucia. Due prove scritte (disegno e prova pratica) e un esame orale che comprende diverse materie legate alla storia dell’arte.
Le scuole di restauro – Oggi la situazione è più complessa, perché sono nati moltissimi corsi regionali, molte scuole private che forniscono attestati diversi anche a seconda del materiale su cui ci si specializza. “Così i restauratori sono diventati una tribù eterogenea, mentre la legge diceva che sui beni culturali potevano metterci mano solo chi aveva un diploma e un’abilitazione”, mi spiega Lucia. Ora, dopo una sanatoria del Ministero, sono state date delle indicazioni di base. Quattro le scuole ufficiali: oltre alle due già citate di Roma, anche la scuola per il restauro del mosaico di Ravenna e il centro di conservazione e restauro di Venaria, Torino, dove tra l’altro insegna Lucia: “La situazione è in costante evoluzione anche per la richiesta di diverse scuole di beni culturali di avere un giusto riconoscimento, ma è necessario saper garantire determinati standard: nel mio istituto c’è un rapporto di un insegnante ogni cinque studenti”.
Ieri e oggi – Una volta entrare in istituto era come “vincere il terno al lotto”. “Oggi non ci sono più quelle importanti figure della scorsa generazione – dice Lucia -, dei veri e propri miti del restauro. Tuttavia ci sono molte più possibilità grazie alle numerose specializzazioni nate negli anni: esiste il restauro di carta, di tessuti e perfino di fotografie. Il lavoro è sempre legato al tipo di committenza che trovi, però questi nuovi materiali danno sicuramente più opportunità”.
Il lavoro sul campo – Dopo un anno d’istituto, Lucia inizia già a lavorare: il cavallo di bronzo nei musei Capitolini, il pugilatore in riposo in bronzo, la vittoria alata a Brescia, sono tante le opere che hanno ‘sfidato’ Lucia negli anni. “Ho sempre lavorato su oggetti splendidi, ma anche il lavoro d’insegnante, che ormai pratico da tre anni, è davvero entusiasmante. Ora, per esempio, sto restaurando un sarcofago del periodo bizantino: per molti un’opera di poco valore, per me è meraviglioso. Ma se devo dire qual è stato ad oggi il lavoro che ho preferito, non riesco a rispondere. Per me il lavoro più bello è quello che deve ancora arrivare”.
Lucia si definisce freelance. Scegle lei i lavori su cui ‘mettere le mani’: “Fino a poco tempo fa avevo anche un laboratorio mio a Milano, ma per sei mesi all’anno non ero lì. Ci sono opere che non si possono trasportare e il lavoro è sempre condizionato dagli oggetti. Marmi, affreschi, dipinti ti obbligano a viaggiare e a lavorare direttamente nei cantieri”.
Il mestiere di restauratore si divide in più parti. Prima il sopralluogo, poi le analisi e alla fine il recupero: “Quando ricevo una chiamata, cerco subito, prima di vedere l’opera dal vivo, d’informarmi il più possibile sull’oggetto. Se ti cerca un committente è perché l’opera in questione ha dei problemi o necessita di alcune operazioni di conservazione, legate magari a un nuovo allestimento. Io, facendomi aiutare solo dalla mia esperienza, cerco subito di capire quali sono le prime criticità, inquadro il problema e decido quali analisi fare”. Capita spesso che si proceda con delle vere e proprie radiografie: “Quando si apre un cantiere per costruire un’autostrada o una fogna, capita che ci siano dei ritrovamenti. A quel punto vengo chiamata e mi muovo subito d’urgenza per recuperare l’opera nello scavo. Di solito, se si tratta di un oggetto piccolo, come per esempio di una spada, si estrae tutto il pezzo di terra e poi in laboratorio si procede con la pulitura. In quel caso la radiografia serve per capire qual è la posizione dell’oggetto e come fare per riportarlo alla luce”.
Lavoro nei musei – Lucia si occupa anche dello spostamento delle opere. Nel 1998 ha seguito lo spostamento della Vittoria Alata: “Bisogna usare molta cautela in questi casi, perché non si tratta di un semplice mobile. Il primo problema era capire come muoverla dal museo di Santa Giulia a Brescia. E’ un’opera con mani sporgenti ed enormi ali. Mi sono messa a studiarla con una piccola luce, fino a che non mi sono resa conto che si poteva smontare”.
Quando si allestisce una nuova esposizione Lucia si occupa di studiare un supporto idoneo per l’opera, “in modo che non subisca troppo stress”, si occupa della sua pulitura e anche delle cosiddette schede sanitarie: “Fornisco indicazioni di trasporto, informazioni sull’umidità e sulla temperatura ideale a cui deve essere sottoposta l’opera, sul suo imballaggio e poi, quando arriva a destinazione, verifico che l’oggetto in mostra sia stato sistemato a dovere. Non sono un medico chirurgo, ma piuttosto la baby-sitter, la tata, dell’opera d’arte”, scherza la restauratrice.
Una sfida continua – Ogni oggetto ha i suoi problemi, ognuno ha bisogno di cure differenti: “In questo lavoro non ci si deve mai far prendere dal panico. Ogni volta si scopre qualcosa di diverso e si scelgono delle soluzioni mirate. Dipende molto dal carattere di ognuno, ma essere un bravo restauratore significa avere molta umiltà. È un lavoro faticoso, che bisogna svolgere con la consapevolezza dei propri limiti: conversiamo con oggetti che hanno qualche secolo di vita e non possiamo pensare di avere una bacchetta magica. Il cervello deve essere sempre collegato con le mani”.
Il lavoro di Lucia la porta spesso a viaggiare all’estero: Francia, Brasile e Svizzera. “Fuori dall’Italia la professione è vista in maniera più chiara: qui da noi la situazione è molto caotica e non sempre viene premiata la professionalità, proprio per i differenti percorsi didattici che portano all’abilitazione. È un lavoro bellissimo, però, interdisciplinare e che ti permette di affiancare alle materie umanistiche anche le materie più scientifiche”.