Uno degli ultimi decreti attuativi del Jobs Act, quello sulle politiche attive del lavoro, che ha subito un percorso di approvazione in parte accidentato, è in fase di definizione. Tecnicamente lo schema di decreto è attualmente sottoposto a parere parlamentare, un parere non vincolante ma comunque dovuto nell’ambito del normale iter parlamentare di approvazione della legge. Parallelamente, le Commissioni lavoro della Camera e del Senato stanno realizzando delle audizioni con gli “addetti ai lavori” per ascoltare le rispettive valutazioni sul decreto in questione. Il primo luglio scorso è stato il turno dell’AIDP, l’Associazione Italiana dei Direttori del Personale, che è stata sentita per un parere sullo schema di decreto sulle politiche attive. L’AIDP era presente con una delegazione guidata da Andrea Del Chicca (Hr Manager Ansaldo Energia). Abbiamo intervistato Isabella Covilli Faggioli, Presidente nazionale di AIDP sui temi dell’audizione e sulle proposte avanzate dall’associazione alla XI Commissione lavoro della Camera dei Deputati.
Le nuove politiche attive del lavoro sono uno dei punti qualificanti del Jobs Act. Molte le novità. Sembra, soprattutto, che sia cambiata la rotta che ci ha guidati fin qui per molti anni: meno politiche passive e più risorse per facilitare l’ingresso e la collocazione al lavoro. Che ne pensi?
Come categoria di professionisti e HR Manager è da moltissimi anni che auspichiamo un cambio di rotta nella gestione delle politiche del lavoro a favore delle politiche attive e di ricollocazione delle persone. In questo senso il cambio di impostazione da parte del legislatore è evidente. Occorre superare quello che è sempre stato un approccio tipico, e per certi versi unico, italiano. Adesso penso che le cose, grazie al Jobs Act in generale e al decreto sulle politiche attive in particolare, stiano cambiando. In meglio. Io sono sempre stata una convinta sostenitrice delle competenze e dell’employability e credo che stiamo andando finalmente verso questa direzione. Per poter vivere e avere forti possibilità di collocazione nel mercato del lavoro dei nostri tempi tutti dobbiamo puntare su un bagaglio di competenze, costantemente aggiornate, in funzione di quelle che sono le reali richieste del mercato. Il lavoratore deve essere accompagnato verso questa prospettiva e deve sviluppare la capacità di rimettersi costantemente in gioco dal punto di vista delle cose che può fare e saper fare in un contesto profondamente cambiato. Questa è la vera sfida delle politiche del lavoro di oggi.
Un contenuto qualificante delle nuove politiche attive previste dallo schema di decreto è il “contratto di ricollocazione”. Si tratta di una sorte di dote economica che il disoccupato può spendere in uno Centro per l’Impiego o in una Agenzia per il lavoro, o altra struttura privata accreditata, per remunerare le attività di collocazione. Il sistema, così concepito, è premiante e apre ad una positiva “concorrenza” tra pubblico e privato. Ti convince?
L’idea di fondo del decreto mi convince. Il coinvolgimento del privato, penso alle Agenzie per il lavoro, nelle politiche di ricollocazione diventa fondamentale per poter effettivamente dare una spinta decisiva alle politiche attive nel nostro Paese, in una positiva concorrenza tra pubblico e privato. Farlo, poi, in una logica premiante in cui le risorse vanno alla struttura che ottiene il risultato della collocazione della persona presa in carica, lo trovo un elemento di efficienza assolutamente necessario. Qualche riserva e preoccupazione, tuttavia, la conservo in relazione alla concreta realizzazione di alcuni punti del decreto. Questa è una partita che si vince o si perde se mettiamo le persone nelle condizioni di collocarsi in tempi ragionevoli. Se invece, creiamo l’ennesimo bacino di disoccupati di lungo periodo ai quali riusciamo ad offrire solo corsi di formazione, allora, ancora una volta, avremmo fatto il bene solo dei fornitori di formazione e non dei destinatari dei corsi, decretando l’ennesimo fallimento. In questo senso abbiamo avanzato alcune riserve in audizione su: la cancellazione nominale del contratto di ricollocamento (nello schema di decreto) sostituito con il più blando “assegno di ricollocazione”; le limitazioni delle risorse vincolate alle disponibilità di bilancio; sulla scelta del riconoscimento economico all’attività svolta dall’Agenzia per il lavoro o dal Centro per l’Impiego solo a risultato ottenuto (la collocazione del disoccupato). Su quest’ultimo punto, pensiamo che si possa ipotizzare il riconoscimento del 50% dell’assegno di collocazione a chi eroga il servizio dopo un certo periodo dalla presa in carico della persona. All’organizzazione della PA andrebbe il compito di fornire chiaramente all’utenza gli “OBIETTIVI” dei livelli di riuscita della ricollocazione, in maniera da orientare con informazioni veritiere ed efficaci la persona in cerca di occupazione.
Qual è il ruolo che possono svolgere gli HR manager nei processi di uscita dei dipendenti in un ottica di politiche attive? In che modo la funzione HR si può integrare efficacemente con le pratiche di ricollocamento?
Intanto va detto che occorre iniziare a pensare all’occupabilità del dipendente da quando entra in azienda e non nella sua fase di uscita. Si tratta di un’attività costante. Il ruolo dell’HR è sempre più importante proprio nella gestione e manutenzione delle competenze del lavoratore. Credo che nel momento in cui l’azienda non è più in grado di garantire uno stipendio ad un proprio dipendente deve in qualche modo farsi carico della ricollocabilità di questa persona, anche in accordo con le rappresentanze sindacali e le istituzioni locali, attraverso un ruolo di accompagnamento verso un nuovo lavoro e attivando tutti gli strumenti possibili. Ovviamente conta anche la disponibilità della persona coinvolta. Si tratta, si badi bene, di un’attività di investimento per l’azienda perché favorisce, con tale attività, la coesione sociale e il benessere del territorio in cui è collocata, con ricadute positive per tutti.
La questione dell’armonizzazione delle politiche attive tra Stato e Regioni è uno dei punti critici più complessi anche perché c’è di mezzo il Titolo V della Costituzione e la legge Bassanini del 1997 che demandano alle regioni la titolarità delle politiche attive e della formazione professionale. Il nuovo ANPAL, ossia l’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro, in qualche modo dovrebbe attutire le difficoltà in questo senso. E’ così?
Sappiamo bene che esiste una concreta e sperimentata difficoltà di armonizzazione delle regole di accreditamento e di gestione delle politiche attive e di formazione professionale tra Regione e Regione. Una difficoltà che in qualche modo limita le politiche attive e le attività delle strutture private (in considerazione del fatto che molte aziende operano su più regioni) con ricadute negative proprio sulle finalità di tali attività. La nuova Agenzia, in attesa della riforma del Titolo V della Costituzione, ha comunque il merito di proporsi come ente di coordinamento e di indirizzo delle politiche attive per tutto il territorio nazionale. Molto, da questo punto di vista, si giocherà nella Conferenza Stato-Regioni, (il 30 luglio scorso è stato siglato l’accordo sulle politiche attive tra Governo e Regioni a cui rimando) e nelle convenzioni che l’Agenzia realizzerà con le singole Regioni. Qui però qualche timore lo abbiamo vista la storia delle conferenze Stato-Regioni su apprendistato e tirocini. Staremo a vedere se si tratta comunque di un passo in avanti. Nello specifico, lo schema di decreto rimanda all’ANPAL il compito di determinare le modalità operative e di coinvolgimento dei privati accreditati, mentre noi riteniamo che tali modalità debbano essere definite in sede di decreto o di successivo atto normativo. Una area critica, secondo noi, è quella del ruolo “interpretativo” dell’Agenzia (ovvero della possibilità che essa emetta ad esempio “circolari”) che dovrebbe essere delimitato in modo molto netto e chiaro per dare maggiori certezze agli operatori evitando così di far sorgere l’ennesimo “diritto delle circolari”.
Avete evidenziato diversi punti critici. Quali, invece, i punti della riforma che vi convincono?
Tre in particolare, che abbiamo riportato anche nel nostro documento di sintesi sull’audizione alla Camera. L’introduzione del Sistema Informativo unico delle politiche del lavoro è uno strumento efficace di semplificazione delle comunicazioni sul lavoro che permette di racchiudere in un unico contenitore l’attività documentale del lavoratore (anche se tutto questo deve essere coordinato con le norme di un altro schema di decreto: quello sulle semplificazioni), inoltre la previsione dell’iscrizione telematica per la formazione permetterà di avere una storia documentale sull’attività formativa delle persone, anche se in questo senso auspichiamo che il libretto formativo del cittadino si intersechi con il bilancio delle competenze. Altro punto positivo la possibilità di utilizzare i lavoratori con sostegno al reddito (coloro che usano gli ammortizzatori sociali e l’indennità di disoccupazione) in attività di pubblica utilità, questo secondo noi può consentire un connubio tra utilità e mantenimento delle competenze, così prevenendo anche il lavoro nero.