La riforma del mercato del lavoro del Governo Renzi è a metà del suo cammino. E’ iniziata con il decreto Poletti che ha semplificato e reso più agevole il ricorso al contratto a tempo determinato ed è proseguito con il progetto di riforma noto come Jobs Act che è già diventato operativo per alcuni suoi capitoli. Parliamo del contratto a tutele crescenti, che ha sostanzialmente rivisto la disciplina della tutela nei casi di licenziamento illegittimo modificando radicalmente la cosiddetta tutela reale rappresentata dall’articolo 18 (il reintegro nel posto di lavoro), e il decreto delegato di riordino degli ammortizzatori sociali con l’introduzione della nuova indennità di disoccupazione (Naspi). Mancano all’appello il decreto di semplificazione dei contratti di lavoro con il ridimensionamento delle collaborazioni e quello sulle politiche attive, oltre a al decreto sulla conciliazione dei tempi lavoro-vita. I ritardi degli altri capitoli sembrano siano dovuti a problemi di copertura finanziaria. Comunque, il cantiere lavoro è ancora aperto e novità dell’ultima ora sono ancora possibili.
Maurizio Castro, già direttore del personale e top manager in grandi aziende, tra cui la Electrolux-Zanussi, Senatore della Repubblica della XVI legislatura è stato direttore generale dell’INAIL e da pochi mesi è a capo della Agenzia per il Lavoro Quanta, spiega in questa intervista come sarà il mercato del lavoro italiano dopo il Jobs Act.
Partiamo da una valutazione su ciò che è già operativo del progetto di riforma del lavoro del Governo Renzi, ossia l’introduzione del contrattato a tutele crescenti che ha seguito un’altra significativa riforma, il cosiddetto decreto Poletti sui contratti a termine. Con questi due provvedimenti sono stati rivisti alcuni importanti aspetti: la a-causalità generalizzata per i contratti a termine (e in somministrazione) e la riforma della disciplina di licenziamento per i contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti. Com’è il nostro mercato del lavoro dopo questi due provvedimenti?
E’ certamente più europeo e moderno. Si tratta di una razionalizzazione del mercato del lavoro italiano che oggi risulta allineato ai mercati del lavoro europei e più avanzati. Inoltre, se ripresa ci sarà, come molti indicatori lasciano intendere, a questo punto le regole del nostro mercato del lavoro non rappresenteranno più un ostacolo, ma al contrario, un facilitatore di sviluppo. I due provvedimenti a cui facevi riferimento rappresentano un’opera meritoria per il nostro Paese. La cancellazione della causalità nei contratti a termine, che ha ridotto il pericolo di “agguati giudiziari”, e il sostanziale superamento della tutela reale, ossia dell’articolo 18, unita al forte incentivo della decontribuzione per il nuovo contratto a tutele crescenti, permettono alle aziende di pianificare le scelte organizzative del lavoro in modo agile, fluido e limpido, a seconda delle esigenze di assunzione a breve termine oppure a medio-lungo termine. In questo senso sì è fatta finalmente chiarezza, sia per le aziende sia per i lavoratori. E i risultati cominciano a vedersi.
Questa semplificazione del mercato del lavoro, in astratto, potrebbe far pensare, con una valutazione superficiale, ad un ridimensionamento del ruolo della somministrazione che prima della riforma ha svolto anche una funzione di “riparo” per le aziende in modo da non prendete decisioni strategiche e impegnative. I dati, però, dimostrano il contrario: nel primo trimestre 2015 la somministrazione è crescita del 18,6% e l’Agenzia che ho l’onore di guidare addirittura del 40%. Risultato frutto di una specializzazione del nostro ruolo verso la fascia “premium” del mercato del lavoro composta da profili e professionalità medio-alte, il segmento pregiato del mercato del lavoro, per intenderci, che rappresenta il segmento di specializzazione, a mio avviso, dell’intero sistema delle Agenzie per il lavoro e che il Jobs Act potrebbe favorire.
Veniamo ad altri punti fondamentali, anche se attualmente fermi in parlamento. Partiamo dal decreto sulla semplificazione dei contratti di lavoro: è stato introdotto il concetto di lavoro etero-diretto che supera il concetto di economicamente dipendente per tentare di marcare una più netta distinzione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo e combattere gli abusi sui contratti di collaborazione e le partite Iva. Sono state delimitate le possibilità del ricorso al contratto a progetto e sacrificate alcune forme contrattuali come il job-sharing e le associazioni in partecipazione con apporto lavorativo. E’ un provvedimento necessario? Sono davvero così tanti i contratti di lavoro come si dice?
Il provvedimento di semplificazione a mio avviso migliora alcune severità, alcune infungibilità e alcuni ostacoli alla libera organizzazione del mercato del lavoro che la riforma Fornero aveva introdotto. La direzione è quella giusta. Poi, nel merito delle scelte fatte, probabilmente si poteva fare di più o diversamente. Bisogna tener conto, tuttavia, che sulla questione del superamento dell’anomalia rappresentata dai contratti cosiddetti atipici e sul un loro utilizzo fraudolento, c’è una fortissima pressione internazionale da parte di organismi come la Bce, il Fondo Monetario Internazionale, l’Ocse e via dicendo, i quali ritengono che il mercato del lavoro italiano sia “drogato” da una presenza significativa di contratti atipici che abbassano artificiosamente il costo del lavoro determinando un fenomeno di concorrenza sleale. Rispetto a questa pressione è comunque necessario dare risposte. Inoltre, questi contratti spingono il mercato del lavoro italiano verso un segmento basso, senza futuro, mentre provvedimenti come quello della Fornero prima e di Renzi oggi svolgono una sorta di funziona pedagogica in quando indirizzano il nostro lavoro verso presidi professionali medio-alti: il futuro. La questione dell’utilizzo improprio e fraudolento dei contratti atipici, inoltre, è soprattutto una questione di legalità e quindi di controlli. Tale aspetto mi sembra centrale per limitare gli abusi senza far ricadere le conseguenze anche su coloro che li utilizzano in maniera legittima. Una questione sottovalutata anche nel Jobs Act.
Le politiche attive prevedono due novità importanti: l’agenzia unica per le politiche attive con lo scopo di semplificare e armonizzarle a livello nazionale e il contratto di inserimento con il conseguente coinvolgimento anche del privato e quindi delle Agenzie per il lavoro in una logica di premialità. La strada è quella giusta?
Assolutamente sì. Le politiche attive sono sempre state la cenerentola delle nostre politiche per il lavoro troppo sbilanciate verso prestazioni di tipo risarcitorio. Nel mercato del lavoro flessibile le politiche pro-lavoro diventano centrali. Finalmente ci stiamo muovendo nella giusta direzione e in una logica di collaborazione pubblico-privato, in cui il ruolo del pubblico è soprattutto di controllo e indirizzo e meno di gestione diretta. La sfida che in questo senso attende le Agenzie per il lavoro è alta e impegnativa. Il nostro compito non potrà essere concepito in termini burocratici e in un certo senso di sostituzione della prima linea dei Centri per l’impiego pubblici, con l’idea di considerarci migliori. Non possiamo pensare di passare da una burocrazia statale ad una privata pensando che questo automaticamente crei un miglioramento. Se così fosse, l’errore sarebbe gravissimo. La sfida che ci riguarda è prima di tutto culturale. Anche le ApL devono fare innovazione e pensare se stesse in una logica di pianificazione e governo del territorio in sinergia con gli altri soggetti sociali e istituzionali. Il contratto di ricollocazione, certamente positivo, nasce in un contesto in cui non c’è una grande cultura dell’outplacement, il quale in alcuni accordi sindacali è diventata una sorta “clausola di stile”. Dobbiamo partire da zero, o quasi. Considero giusta, in questo senso, la scelta del Governo di premiare solo il risultato, ossia la collocazione delle persone, e non le attività preliminari e propedeutiche alla collocazione. Altrimenti, cadiamo nel rischio che dicevo prima e rischiamo di sostituire alla burocrazia statale una burocrazia privata. Ciò vorrà dire focalizzare le nostre attività solo sui profili professionali medio-alti? Per me questo è un bene. Non solo perché contribuisce alla qualificazione verso l’alto del lavoro ma perché avrà ricadute positive su tutto il mercato del lavoro e l’intero sistema economico-produttivo. Semmai, si potrà discutere su una più opportuna remunerazione per il collocamento di queste figure.
Nello specifico del ruolo delle Agenzie per il Lavoro è stata ampliata la possibilità del ricorso alla somministrazione a tempo indeterminato, con l’aggiunta, però di un limite del 10 per cento. Dobbiamo attenderci un maggior sviluppo della somministrazione a tempo indeterminato? Sei d’accordo sul limite del 10%?
E’ una scelta insensata, illogica e contradditoria rispetto agli obiettivi di fondo del Jobs Act. Ma come si può pensare di mettere un limite ad una forma contrattuale a tempo indeterminato? Se la ratio della riforma del lavoro del Governo Renzi è la lotta alla precarietà non si capisce perché alla somministrazione stabilizzata è stato indicato il limite del 10 per cento del suo utilizzo in azienda. Inoltre, il nostro sistema produttivo, come noto, è caratterizzato da un diffuso “nanismo dimensionale” delle nostre imprese, che tra i diversi limiti, ha anche quello di far fatica ad accedere a professionalità medio-alte e particolarmente qualificate. Lo staff leasing nasce proprio per fornire a certe condizioni queste competenze alle PMI. Lo staff leasing favorisce la collocazione di manodopera qualificata che molte imprese in ragione della loro condizione dimensionale limitata non riescono a coinvolgere. Penso che la ragione di questo dissennato limite sia di carattere “estetico”, avvolta da un velo di ipocrisia. Dico di più: la via italiana allo sviluppo della somministrazione passa dallo staff leasing. La somministrazione più tradizionale vivacchia mentre è proprio nella sua espressione a tempo indeterminato il futuro. Lo staff leasing, purtroppo, è stato oggetto di un’orrenda campagna ideologica le cui scorie si possono riscontrare anche nella scelta del limite del 10 per cento prevista nel Jobs Act. Mi auguro e auspico con forza che le ragioni della modernizzazione e del buon senso prevalgano su residui ideologici che ancora influenzano certe scelte.
Qual è l’impatto del Jobs Act dal punto di vista delle nuove assunzioni secondo te? Stiamo assistendo ad un walzer di numeri che provengono da più parti, anche se autorevoli, ma non tutti coincidenti. E poi, senza i forti incentivi economici previsti dalla Legge di Stabilità per i prossimi tre anni cosa sarebbe successo?
Sono convinto che ci sia la necessità di individuare un’unica metodologia di riferimento per tutta la statistica del lavoro. Dobbiamo parlare tutti lo stesso linguaggio se vogliamo capirci. Non è molto esaltante assistere a periodiche rilevazioni statistiche sul lavoro che presentano quadri che non coincidono. Ciò detto, appare indubbio che tutte le rilevazioni mettano in risalto lo straordinario risultato e successo che sta avendo il contratto a tutele crescenti. Certo, in questa fase assistiamo soprattutto ad un processo di trasformazione di contratti a tempo o in vario modo flessibili in contratti a tempo indeterminato. Ma questo è un grande risultato per il nostro mercato del lavoro e soprattutto in linea con le finalità del provvedimento, ossia la lotta alla precarietà. Credo, tuttavia, che questa riforma avrà un impatto positivo anche nella creazione di nuova occupazione nel senso che crea un contesto normativo di riferimento favorevole per chi vuole investire. E’ vero che gli incentivi economici sono un potente propulsore per il contratto a tutele crescenti, ma questo successo non era scontato. Anche gli incentivi economici possono fallire. Si pensi al provvedimento simile del Governo Letta che ha ottenuto scarsi riscontri.